Piotta: “Ogni parola descrive un fermo immagine, ma la vita e tutti noi siamo in continuo mutamento.”

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Non avevo mai intervistato Piotta e, chiaramente, sono partita con una sviolinata facendo un  errore madornale sul luogo del tavolino invisibile citato all’inizio del suo libro. Il primo re(p), alle origini del rap Italico esce dopo Pioggia che cade, vita che scorre nel 2006 e Troppo avanti: come sopravvivere al mondo dello spettacolo del 2008. Edito da Il Castello (marchio di Chinaski Edizioni), è stato scritto durante il periodo dei lockdown ed è una vera e propria biografia di Piotta che, attraverso racconti e veri e propri flussi di coscienza, ripercorre la sua storia come uomo e come artista spiegando anche le dinamiche della cultura Hip Hop in Italia che stava nascendo ed evolvendosi proprio in quel periodo. Il libro parte da quel famoso tavolino di cui ho sbagliato il luogo, un tavolino in cui Piotta era seduto con Ice One, i Colle der Fomento e Primo davanti al Liceo Classico Giulio Cesare di Roma. Ad un certo punto lui si alza. Il perché lo spiega in questa intervista e soprattutto, lo spiega nel libro. 

Quando ti è venuto in mente di scrivere questa biografia?
Il libro è nato durante il secondo lockdown. Il primo era stato creativamente coperto dalla realizzazione della colonna sonora originale di Suburra. Durante l’estate mi sono illuso, come tutti, che tutto fosse alle spalle, ed invece ci siamo ritrovati punto e a capo. A quel punto che fare? Il nuovo disco ma senza poterlo poi portare in tour? Un’assurdità, almeno per come da sempre concepisco io la musica, dove il live è da sempre l’albero motore. Il destino mi ha recapitato questa inaspettata proposta, che mi ha così tanto stimolato da farmi dire subito sì. Ecco allora prendere la luce il mio terzo libro, il più intimo ed emotivo fin qui, e per questo il più bello, stando anche a commenti e recensioni. 

Come lo hai vissuto il periodo del lockdown?
Male come tutti, ma per fortuna stimolato creativamente come ti dicevo prima dal fatto di dover e poter realizzare una colonna sonora internazionale per oltre paesi, e poi questo mio terzo e fin qui ultimo libro.

Secondo te quanto ci vorrà perché tutto il mercato dello spettacolo si riprenda? O credi che siamo già in netta ripresa?
Mi pare si stia già riprendendo, vedendo anche i dati forniti da SIAE alla Milano Music Week, i recenti tour e l’estate scorsa. La musica è terapeutica, e qua stiamo tutti male, per cui serve una medicina buona come questa.

Scusami per le divagazioni. Purtroppo sono stati dei periodi difficili e, da un certo punto di vista, è difficile non fare domande. Torniamo al libro. Assolutamente intuibile il perché del titolo:. Ma mi piacerebbe comunque avere un tuo commento sulla scelta.
Perché sono stato il primo da Roma, e tra i primissimi in Italia, a portare questa musica e questa cultura sulla bocca di tutti. Sono, e siamo stati, pionieri coraggiosi e visionari, mentre tutti ci dicevano di lasciar perdere, che tanto questa roba in Italia non avrebbe mai funzionato. Glielo dicevamo, non capite un cazzo del futuro, ma non ci credevano, poi alla fine si sono arresi all’evidenza.

Oggi dicono la stessa cosa della trap, che sarà il futuro. E i trapper rispondono come voi al tempo. Che visione hai della cosa?
Non saprei, se lo dicono loro allora chissà, magari sarà così, anche se io ho qualche dubbio, perché trovo che molti sono troppo uguali a se stessi, per contenuti e suoni.

Il libro parte con un’inquadratura su te, Ice One, i Colle der Fomento e Primo seduti a un tavolino dello Stellarium a San Giovanni, mi pare. Ad un certo punto dici di essere stato il primo ad alzarti. Mi spieghi cosa intendi?
Il tavolino non è allo Stellarium a San Giovanni. Quella è la prima jam dove partecipai con il nickname Piotta inventato da Masito 5 minuti prima. Prima mi chiamavo Zano (come il cognome) T. (come il nome). Il tavolino era metaforicamente, come scritto nel libro, davanti al Liceo Classico Giulio Cesare. Dopo il Tortuga di Antonello Venditti era arrivato il momento dell’Hip Hop romano, il momento della nostra generazione, diversissima dalle precedenti.

Vero. Nel libro hai citato un sacco di posti e mi sono confusa i luoghi. Ma quindi perché ti sei alzato da quel metaforico tavolino? O meglio cosa ti ha spinto ad alzarti?
Mi ha fatto alzare da quel tavolino la curiosità di confrontarmi con la musica italiana a livello professionale: etichette, festival, tv, radio. Tutte cose lontane da noi ma che bisogna affrontare e capire per dare una giudizio e fare critica in modo maturo. Il successo di massa da Lampedusa a Lugano ha alimentato a gonfie vele questa traversata oceanica.

Parlando di questo, c’è una cosa che mi ha colpita. Tuo padre ti diceva che eri più tennista che calciatore, ma tu affermi che, in effetti, giocavi meglio a calcio che a tennis. Metaforicamente vuol dire che dai il tuo meglio in team. Giusto? Come hai trovato, nel corso della tua vita, il tuo baricentro?
Io davo il mio meglio in team da giovanissimo e da adolescente, perché a quell’età credo sia  normale giocare in team, o crew che sia. Poi crescendo, ed acquisendo sempre più consapevolezza e maturità, giocare da soli non è un fattore che spaventa. Quindi ti direi che come baricentro gioco spesso bene in coppia, per rimanere in ambito tennistico ma allargato. Due solisti che si confrontano e creano assieme, ma non una band, perché la band  (intesa come progetto discografico e non come gruppo di musicisti in tour) mi sta stretta da sempre. Amo prendere da solo le decisioni. Da adulto non ho mai avuto paura di vincere, e tanto meno di perdere.

Ti giuro che non ti voglio provocare. Mi piacciono però queste metafore sui giochi di squadra. Sempre metaforicamente, che rapporti hai con gli arbitri?
Ti giuro che non ti voglio provocare, ma ti può bastare come risposta: cornuto!. (ride, n.d.r.) E comunque vedo che la categoria cuckold è in gran voga sul web, quindi a quanto pare l’arbitro e le regole vanno molto di moda di questi tempi, e in effetti il lockdown ne è stato ampia prova.

Va benissimo come risposta! Senti, ma tu ti sei mai sentito solo? Magari in un momento in cui avevi scelto di alzarti da un tavolino?
Io amo stare solo. Solo un gran cazzone compagnone, potete chiedere ai vecchi e attuali compagni di viaggio in tour, ma ho anche l’istintiva necessità di ritagliarmi il mio spazio fisico e mentale. Viaggi da solo, letture, ascolti, anche solo pensare nel silenzio della mia stanza creativa. Per cui mi sono alzato da quel tavolino colmo di affetto per tutti gli amici che avevo ed ho, ma anche consapevole che in fondo ogni uomo fa i conti con il suo destino da solo, bello o brutto che sia.

Hai perso la tua mamma, il tuo papà, tuo fratello Fabio. Queste perdite, come hanno influito sul tuo baricentro e sulla tua dualità?
Hanno contenuto la mia dualità, perché già da giovane ho dovuto fare leva su me stesso per rimanere in bilico su un cavo teso tra i palazzi di queste nostre città, e basta un piccolo movimento fuori asse per cadere. Ogni assenza è stato un vuoto da riempire, da provare a riempire, con la mia creatività, con lo studio, con la crescita umana. Sono vuoti enormi che riempio ogni giorno, ma stiamo ancora a meno della metà della capienza.

La Grande Onda l’hai fondata tu. Quanto è importante il lavoro di team in un contesto discografico? In fondo è diverso quando la vivi da artista che si alza dal tavolino, come metaforicamente hai fatto tu, e come CEO che lavora al fianco di altri artisti, in team.
Credo sia importante che una società non si sviluppi solo sulle idee di un singolo. Può partire da queste, ma poi serve un confronto sincero e non fatto solo da yes man. Sia per un fatto di gusti, che per stare al passo con i tempi a livello tecnologico, visto quanto corre il futuro informatico. La mia dualità, e forse anche più in questo caso, l’ho declinata sul lavoro. Ti confesso che è diversissimo quando entro in studio come artista, quando siedo ad una scrivania come CEO, quando mi metto al computer come scrittore, o quando partecipo ad un’assemblea come delegato del Nuovo Imaie. Ogni ruolo ha le sue regole e i suoi tempi, e vanno ordinatamente e professionalmente rispettati.  

Quali sono i progetti o gli artisti più interessanti all’interno de La Grande Onda? So che avete un roster enorme e immagino che credi in tutti loro, ma qualcuno ti colpisce di più?
Ti parlerò solo dei più giovani. Tra questi gli Inna Cantina, uno dei gruppi reggae di punta della scena romana e nazionale, con incursioni anche all’estero. Sul fronte più indie i giovanissimi Studio Illegale, e sul fronte urban l’attore e cantante Alessandro Proietti, che da Garbatella a New York -dove è stato finalista del concorso NY Canta sulla Rai- si sta facendo notare per la sua versatilità e il suo moderno mix sonoro urbano.

Considerando le difficoltà italiane e i pochi aiuti alle aziende, ci sono stati dei momenti in cui hai pensato di portare La Grande Onda fuori dall’Italia?
Mai. Non porterei nulla nemmeno fuori da Roma, eccetto che me stesso per viaggiare.

Il non voler portare nemmeno fuori da Roma è molto interessante e si percepisce questa tua avversione quando nel libro affronti  l’argomento discografia. Ad un certo punto citi il fatto che alla fine degli anni novanta e inizio duemila, non c’era bisogno di spostarsi a Milano per firmare grossi contratti discografici. Quando e perché questa cosa è cambiata? Come mai, secondo te, Milano è diventata la city della discografia nel tempo?
Forse perché Roma è da anni in mano ad una politica disabile e miope? O forse perché fare due appuntamenti a Roma è come farne sei a Milano, considerando mezzi di trasporto e grandezza dell’Urbe? Perché Milano è geograficamente meglio contestualizzata a livello europeo? Perché tutti quelli che sanno fare i soldi vanno a Milano e alcuni artisti li seguono rischiando di raccontare le stesse cose allo stesso modo? Tra l’altro la mia famiglia viene in parte da Milano, precisamente quartiere Isola, Piazzale Lagosta 1, e per me andarci sarebbe stato emotivamente fare un passo indietro. Sto bene qui, rispetto le mie radici ma adoro Roma, e come ogni malinconico che si rispetti vojo morì ‘n do so’ nato!

“Per una famiglia media italiana il rap non poteva essere che un gioco, una mezza carnevalata o poco più. Noi ci siamo inventati questa professione in Italia, prima contro le famiglie, poi contro la miopia di molti addetti ai lavori, e a volte persino contro la gelosia di alcuni colleghi di quel tanto decantato “pop italico”. Questo è un estratto del libro. Le cose sono cambiate oggi no? Il pop italico cerca la collaborazione con il rapper e i magazine non vedono l’ora di pubblicare notizie inerenti a nuove uscite. Ma le famiglie? Che ruolo hanno oggi le famiglie?
Siamo ancora oltre. Il pop non cerca il featuring, il pop è il featuring. Il pop oggi è la musica urban, inclusi trap e rap. La cosa bella è che il rap è come un Giano bifronte, e dentro ha di tutto, e anche tutto il suo contrario. Un Dio che può guardare con orgoglio al suo passato, e domandarsi cosa sarà del suo futuro. Io voglio pensare che comunque vada sarà un successo, per autocitarmi. Le famiglie invece sono disperse, sempre più, dietro ad una società che fa di molto per fiaccarle nell’animo e nelle economie, inseguendo il mito dei soldi facili, calciatori ieri, influencer oggi, senza dare tempo ai ragazzi di rispettare la Dea Musica per quello per cui esiste, al di là del danaro: armonizzare e aggregare le persone, tirando fuori quello che sono anche nei momenti più difficili.

Ad un certo punto fai riferimento al fatto che in quel famoso tavolino ti eri seduto come Tommaso e ti eri alzato come Piotta. Sempre parlando di dualità, oggi esiste ancora un Tommaso? Anche in questo hai trovato un baricentro?
Tommaso è il contenitore più grande, ed è sempre stato così. Poi per la vita pubblica Piotta ad un certo punto voleva prendersi tutto lo spazio, ma gli ho parlato e spiegato che era da prepotenti. E quindi lo faccio uscire in base alle necessità, che sia in tour o in studio. Scherzo naturalmente, però il baricentro è assolutamente Tommaso dal giorno uno. Se piace Tommaso bene, se non piace Tommaso bene uguale. Sono così. Mai avuto dubbi e mai fatto troppi patti, artistici o familiari che fossero.

Faccio l’invadente. Giusto perché non so se nella mia vita riuscirò ad intervistarti di nuovo. Che persona sei? Come ti definiresti se ti dovessi descrivere?
Chiama lo psicologo. Non basterebbe un anno per definirmi, anche perché a 50 anni ho già fatto almeno tre vite, e forse questa è la quarta. Ogni parola descrive un fermo immagine, ma la vita e tutti noi siamo in continuo mutamento. 

(foto Alfredo Villa)
(foto Alfredo Villa)
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