Gil a pezzi. Vita morte e miracoli di un poeta afroamericano

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Per iniziare potreste mettervi in cuffia Live At The Village Vanguard Again!, registrato dall’immenso John Coltrane nel 1966. Partiamo da lì per farci un’idea di come si muovevano le sinapsi di Gil Scott-Heron, anche se apparentemente non c’è nessuna connessione logica. Il lato B dell’album contiene soltanto una traccia, della durata di venti minuti e ventuno secondi: la celeberrima “My Favorite Things”. Si tratta di un brano che Coltrane aveva già trasformato in uno standard molto tempo prima, ma in quell’ormai lontanissimo maggio newyorkese decideva infine di stravolgerlo inseguendo le proprie fantasmagorie free jazz. Un jazz libero, appunto.
Lo stesso che lo accompagnerà fino alla morte, di lì a meno di un anno. Sul palco del Village Vanguard lo sentiamo destrutturare e ricomporre il tema di “My Favorite Things” restando meravigliosamente in bilico tra furore e disperazione, saggezza e follia; e anche se saranno in moltissimi a rileggere le stesse partiture in mille modi diversi, nessuno si avvicinerà mai a una tale dolorosa bellezza. Non come lo faceva lui, addentrandosi in territori modellati da sassofoni urlanti e contrabbassi che somigliano a tamburi di muschio. L’animo di Gil Scott-Heron aveva molto in comune con quel lato B, schizofrenico e libero. Ma partiamo dall’inizio.
Bobbie Scott e Gilbert Heron sembravano una ragazza e un ragazzo come tanti, eppure non lo erano. Lei con un carattere che le avrebbe permesso di affrontare le avversità della vita sempre a testa alta, e lui con un passato da pugile e il merito di essere il primo calciatore afroamericano ad entrare nel Celtic di Glasgow. Lo chiamavano black arrow, visto che era veloce come un supereroe. Tra loro le cose non funzionavano sempre bene, ma si amarono abbastanza a lungo da mettere al mondo un bimbo registrato al Provident Hospital di Chicago nell’aprile del 1949. Il nome è esattamente lo stesso del padre, accorciato poi di quel bert finale che lo rendeva troppo pomposo. Solo Gil quindi, fatto seguire dal doppio cognome. Già, perché Bobbie Scott non sarà stata famosa come il marito, ma in quegli anni ci voleva ben più della sola forza di volontà affinché una donna nera riuscisse ad iscriversi al college senza farsi scoraggiare da tutto e tutti. La coppia restò insieme appena altri due anni, con il piccolo che alla fine andò a vivere a casa della nonna materna a Jackson, in Tennessee. Sarà lei, Lily Scott, che inizierà a piantare tra i pensieri del nipote quei semi che poi, con il passare del tempo, germoglieranno in poesie, romanzi e canzoni. Gil resterà a Jackson oltre un decennio, appassionandosi a tutto ciò che sentiva uscire dalla radio e nei juke joints di campagna. La musica gli piaceva a tal punto che la nonna fece in modo di recuperare un pianoforte, a cui lo scricciolo si approcciò con la frenesia dell’autodidatta, iniziando a capire che gli bastavano quei tasti e tanta fantasia per penetrare altre dimensioni. Per andare oltre le notti in cui la segregazione razziale puzzava ancora di cappucci bianchi e croci cosparse di benzina. Tra le assi delle verande, alla luce della luna, si leggevano le pagine del Defender: il settimanale di Chicago era una delle pubblicazioni più importanti per la comunità afroamericana, e gli articoli di Langston Hughes rimbombavano come esplosioni di inchiostro nelle orecchie.
Fu una premonizione, in un certo senso. Partire da una scuola cattolica di Jackson, che somigliava ad un vecchio rudere, per approdare tra prestigiose aule universitarie ebbe molto a che fare con quelle ore passate insieme alla nonna. E poco importa se, alla fine, sarà New York la città che più di ogni altra forgiò la dimensione artistica di Gil Scott-Heron. Nella Grande Mela, riunitosi finalmente in pianta stabile alla madre, l’adolescente dinoccolato iniziava a fare uscire l’adrenalina sputandola su un foglio di carta: racconti, versi, stralci di diario, andava bene tutto. Più che la rocambolesca esperienza scolastica, furono gli alloggi popolari di Lower Chelsea a fargli cambiare prospettiva.
La zona prendeva il nome di “Little San Juan”, tanti erano i portoricani che ne affollavano i marciapiedi. Mischiare le carte con l’universo latino stimolò il suo approccio alla composizione, ne fece sbocciare le doti compositive e gli permise di mettersi in tasca persino qualche dollaro esibendosi nei club. Tuttavia c’era qualcos’altro a tenergli la mente perennemente accesa. Era riuscito ad entrare alla Lincoln University, la stessa in cui si era laureato proprio quel Langston Hughes che firmava le colonne del Defender. Sua nonna sarebbe stata fiera di vederlo lì. Non è un caso se nel 1970 Gil scrive The Vulture, un romanzo secco e affilato al punto giusto, seguito poi da una raccolta di poesie dal titolo Small Talk At 125th And Lenox. 

Continuava a chiedersi: “Devo per forza scegliere se essere un musicista, uno scrittore o poeta?”. Alla fine però arriva una matricola di nome Brian Jackson, e tutta la nostra storia prende un’altra piega. Sebbene quest’ultimo avesse una formazione da pianista e flautista classico, i due si annusarono subito in nome del jazz, presero a suonare insieme e iniziarono anche a frequentare assiduamente i locali della città per vedere esibirsi qualsiasi nome capitasse a tiro, tra cui i primissimi Last Poets. Assorbirono qualcosa di vorticosamente diverso dal soul e dal funk. Era l’Africa che pulsava ai ritmi delle percussioni e si inebriava di parole, le stesse che nei mesi a venire scoppieranno dalla bocca carnosa di Gil e più tardi attraverso i giradischi e le rime del Bronx. Così si apre un’altra parentesi. Sarebbe ingenuo dipingere Gil Scott-Heron come uno dei padri del rap, visto che salteremmo una lunga serie di passaggi intermedi (la pratica giamaicana del toasting, ad esempio): ci basta dire che lo spoken word dei Last Poets di sicuro lo colpì profondamente, a tal punto che il suo esordio discografico è proprio un disco parlato. Bob Thiele, capo dell’etichetta Flying Dutchman, si era infatti interessato a lui come poeta e molto meno come cantante, tanto che l’LP che fece uscire nei negozi era un reading di Small Talk At 125th And Lenox arricchito di pianoforte e congas. Per convincere radio e pubblico bastò la voce del protagonista: tagliente come un coltello a serramanico, mentre disquisiva di omicidi, fratelli calpestati e rivoluzione nera. Senza mai urlare davvero. Bob Thiele si ritenne talmente soddisfatto delle vendite da far rientrare subito Gil in studio di registrazione e concedergli la scelta dei nomi da cui farsi spalleggiare, questa volta per un album più groovy. Ecco che appare nuovamente nella nostra vicenda Brian Jackson, insieme a musicisti del giro di Miles Davis, Herbie Hancock e James Brown. Con Pieces Of A Man siamo davanti ad un piccolo miracolo in cui si respirano atmosfere oniriche e sensuali, talvolta attraversato da una coltre di riverberi e altre sepolto in un ghetto dell’anima. Ad aprire la scaletta una nuova versione di “The Revolution Will Not Be Televised” già incisa nell’esordio, seguita da numeri jazz-funk (“Lady Day And John Coltrane”) e approcci confidenziali quasi alla Isaac Hayes (“Or Down You Fall”). Ancora una volta l’etere, in quell’estate del 1971, fece girare moltissimo la voce di Gil. A poco serviranno “The Nigger Factory”, il suo secondo romanzo; tantomeno il dottorato e un futuro accademico da insegnante di scrittura creativa al Federal City College di Washington: la carriera discografica era l’unico obiettivo che gli interessava davvero, soprattutto adesso che una grande etichetta come la Arista lo voleva in scuderia. Con Free Will, l’ultimo dei tre album previsti dal contratto con la Flying Dutchman, aveva messo insieme dei brani che per un motivo o per un altro non erano finiti nelle due uscite precedenti, talvolta con arrangiamenti minimali che li rendevano simili a dei recitativi. Ma era chiaro che non bastava più arroventare la gola sui capoversi, il pubblico là fuori stava già innamorandosi perdutamente delle visioni di Terry Callier e Donny Hathaway. In poche parole, ci volevano nuove canzoni. Veniva così dato alle stampe Winter In America, uno dei capolavori assoluti della musica afroamericana e sintesi perfetta delle due anime di Gil Scott-Heron, quella da poeta e quella da musicista. Talmente bello che anche l’FBI inizia ad interessarsi in modo inquietante a quel suo modo di raccontare l’inverno, uno stato mentale attorno al quale ruotano il marciume politico di chi vuole governare il paese, i baschi del Black Panther Party e le eterne disparità tra la comunità nera e quella bianca. Basta ascoltare la commovente “Rivers Of My Fathers”, bagnata nel sangue subsahariano, per capire quale sia l’animo del disco; o la celeberrima “The Bottle”, forse il brano più commercialmente fortunato a firma Scott-Heron. In quella sorta di autobiografia dal titolo L’ultima vacanza (pubblicata in Italia da Liberaria), Gil ricorderà gli anni Settanta come un rocambolesco susseguirsi di primi posti nella classifica di Billboard, collaborazioni con artisti di fama mondiale e un’intensissima attività live che non gli lasciava neanche il tempo di respirare.

Tutto questo ha un prezzo, purtroppo. A partire dal 1974 di First Minute Of A New Day la sua musica inizia forse a risultare per la prima volta più leggibile e, in un certo senso, meno letale. Ci sarà ancora spazio per alcuni dischi degni di nota (It’s Your World su tutti), prima che arrangiamenti troppo laccati e una scrittura affidata talvolta al pilota automatico segnino una lunga caduta con il procedere degli anni Ottanta. Un abisso personale e non solo artistico, fatto di eccessi e figli da crescere senza aver capito se ne aveva mai amato le madri. Il nostro si scopriva molto meno forte di quel che pensava, soprattutto ora che veleggiava da solo tra le onde del crack.
Il mondo dell’hip hop lo celebrò poco e lui si limitò ad osservarlo con sguardo critico, prendendo le distanze quando aveva sensazione che il suo messaggio non venisse compreso. Il testo di “Message To The Messengers” è quasi una dichiarazione d’intenti in questo senso, mostrando come il vecchio leone avesse zanne molto più lunghe di tutti i cuccioli; in un 1994 che lo vedeva in realtà appena quarantacinquenne e già sconfitto. Dove non arriva più l’urgenza subentra il mestiere, ma sotto il palco rimane poco dell’uomo che un tempo aveva cantato Angel Dust. Non serve entrare nei dettagli di una serie di arresti e incarcerazioni, di riabilitazioni mai portate a termine e violazioni della libertà vigilata che si protrarranno ancora nei primi anni nuovo millennio. Sarebbe troppo lungo, e penoso. Durante l’orario delle visite al penitenziario di Ryker Island, un certo Richard Russel chiede di parlare con il detenuto. I due si guardano negli occhi e Russel, con voce emozionata, spiega che vorrebbe proporgli un contratto con la sua etichetta. È la XL Recordings, un pesce piccolo nato tra gli scogli dell’elettronica e dei rave che, ormai da tempo, si è costruita una reputazione niente male nell’oceano spietato dell’industria discografica.
I’m New Here esce nel 2010 e rivolta il suono di Gil Scott-Heron tra scudisciate sintetiche e oceani di dub, rivelandone nuove dimensioni in grado di conquistare un pubblico che mai si sarebbe sognato di mettersi in cuffia uno dei dischi precedenti. A riprova di ciò, nel 2011 l’intera scaletta verrà remixata da Jamie Smith degli XX sull’altrettanto interessante We’re New Here; senza contare che per il Record Store Day 2014 usciva un’appendice del progetto intitolata Nothing New, in cui Gil veniva fotografato in delle commoventi session per solo piano e voce. Ma lui non fece in tempo a vederlo quel disco, né a ritrovare la forza per ricominciare da capo ciò che si era interrotto molti anni prima.
Il 27 maggio del 2011 Gil Scott-Heron chiudeva gli occhi per sempre al St. Luke Hospital di New York. Con la sua scomparsa è rimasto un segno profondo nella cultura afroamericana del Novecento: come una cicatrice di abbacinante bellezza, lungo cui il suono, la morte e la vita continuano a confondersi in maniera imprevedibile. E straziante.

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