Caneda, Raffaello Canu all’anagrafe, classe 1976, per gli amanti del rap non dovrebbe avere bisogno di presentazioni. Attivo già dai primi anni Novanta, produttore, mc e writer, ha collaborato con moltissimi artisti del panorama black made in Italy dando vita a vere e proprie hit capaci di unire come di dividere. Voce ruvida, testi onirici e intimi, un artista a tutto tondo, uno dei più completi del panorama italiano.
Iniziamo subito con un flashback: il writing, la crew 16K, la tua tag Cano… cosa ti ricordi di quei tempi?
A 14 anni venivo da un percorso scolastico molto difficile, sono stato messo in aule vuote lontano dai miei compagni di classe ed obbligato a frequentare istituti per ragazzi in difficoltà, solo per giudizi medici errati, per poi finire in un liceo artistico per il solo fatto che non bocciavano mai gli studenti.
Anche al liceo ho avuto molti problemi. Ho dovuto promettere ai professori di non continuare in campo artistico dopo gli studi, in cambio di promozioni assicurate in tutte le materie, a ogni fine lezione della materia di disegno i professori appendevano il mio disegno alla parete dell’aula, chiamavano tutte le altre classi della scuola per ridere dei miei disegni come se fossero a Fratelli di Crozza. Ma anche io ridevo, solo che ridevo di loro, di notte mentre loro andavano a dormire io andavo a farmi bestie di treni da 30 metri per 3 con le scale e muri in Barona più alti del Duomo. Avevo creato un mio mondo\sistema, nel quale i miei maestri con cui tra l’altro ho dipinto erano Phase 2, Sharp, Vulcan e Dome e la mia accademia una fabbrica abbandonata, un ponte gigante e un deposito di treni, tutti e tre situati vicino tra loro. Dove finiva la città di Milano e iniziavano i miei sogni.
Il Writing mi ha insegnato a capire che il mondo si sbagliava e che pure uno come me poteva avere il diritto al talento e ai sogni. Anche i writers di quel liceo non credevano molto in me non avendo Nike ai piedi e niente di americano addosso, almeno finche non sono arrivato un giorno a scuola con la foto del mio primo muro, e il loro sguardo cambiò.
Per quanto riguarda la crew, no, non frequento più il gruppo 16k.
Al di là del solito discorso sulle quattro discipline, come è avvenuta la tua transizione verso il rap e cos’hai portato nella scrittura del tuo vissuto nel writing? Ricordiamo ai lettori che hai esordito con un cd, Spiriti liberi, ed il gruppo era l’Armata 16, nome mutuato proprio dalla crea
Ho iniziato a fare rap quando ero giovane, ad esempio mentre mi incamminavo di notte per raggiungere i depositi dei treni o prima di scendere a disegnare di notte in metropolitana, Ero anche ispirato da varie situazioni come la frequentazione del deposito dell’Atm, che nel 1993 era il ritrovo del rap a Milano.
Ricordo anche di essere andato al primo festival del rap italiano, che si era tenuto in una specie di fattoria fuori Milano dove c’era più gente sul palco che tra il pubblico.
Da li ho iniziato a incuriosirmi di questo genere musicale e a improvvisare e a giocare con le rime, fino a scrivere le prime canzonette e di seguito il primo mixtape come Caneda.
Spiriti liberi è qualcosa da dimenticare come quel gruppo.
Quanto è stata naturale questa transizione e quanto ti ci è voluto per trovare la tua voce nel rap? Immaginiamo che ai tempi avevi anche dei riferimenti musicali ben precisi…
In modo molto naturale, come dicevo prima, in primis per la frequentazione di questo deposito dove nel 1993 si ritrovavano gruppi come Articolo 31, Comitato, Spaghetti Funk, e di seguito anche frequentando il muretto in san Babila dove si ascoltava musica black 24 ore su 24 come rap funk ed elettro boogie. Non trovo differenza a livello creativo tra dipingere su una tela bianca e scrivere su un foglio bianco una canzone, si tratta di creare qualcosa dal nulla, dal vuoto e dal silenzio. I prodotti sono diversi ma il concepimento creativo è il medesimo. Per cantare volevo una voce ruvida e più vicina al rock, la mia voce naturale non mi piaceva molto, la trovavo molto banale.
Come riferimento ho sempre avuto il rap americano e il rap francese, credo che il livello della mia musica si debba a queste due intuizioni, ovvero usare le metriche americane per raccontare delle mie fiabe, e dei concetti vicini alle mie esperienze. Ed era quello che i rapper di quel periodo non avevano capito ai tempi e che i giovani rapper invece hanno capito oggi, infatti la qualità del rap italiano è finalmente alta e all’altezza degli altri paesi soprattutto grazie ai giovani artisti.
Facciamo un altro flashback: quando è uscita la tua strofa su “Il ragazzo d’oro”, molti ti avevano definito il futuro, anche se ricordiamo parecchi detrattori non affatto convinti del tuo rap. Tu come hai vissuto quel momento? Ritieni di averlo sfruttato a sufficienza?
Grazie per le parole gentili nel descrivere quel periodo. In realtà è stato un massacro di critiche via social prima, e poi anche in strada, basti pensare che facevo fatica ad uscire di casa, mi urlavano dalle auto e al supermarket quando facevo la spesa, una roba folle, credo che siano nati in quel momento gli haters in Italia (ride, n.d.r.).
Ho ricevuto insulti e minacce di morte per 6 mesi, ed è stato difficile per me vedere un tale casino e un tale attacco nei miei confronti solo per una mia strofa, una strofa fatta si magari per sperimentare nuove metriche ma soprattutto per divertirsi, ma come si è visto non è stata capita da nessuno. Poi all’improvviso il pubblico ha capito e si è divertito a cantarla, adesso il brano è più loro che mio…però che palle.
Già con Zona Uno Anthem stavi andando in quella direzione che esasperava l’approccio sudista, ma dopo la strofa nel pezzo con Guè come è cambiato il tuo modo di approcciarti al rap? Ai tempi molte cose non erano affatto ben viste dai cosiddetti b-boy fieri. In Italia avete sdoganato una certa attitudine verso certo rap d’oltreoceano che era un po’ tabù, che cosa ti interessa oggi invece del rap americano? Lo segui ancora con attenzione?
Non è cambiato molto, continuo a raccontare le mie storie e a studiare le metriche americane e i moduli per comporre nuove tecniche come ad esempio in “Unpodi”. Trap, drill, crunk, eccetera, il rap ha sempre avuto molti sotto generi, ma è sempre rap. E non mi piace fare un solo genere di rap, mi piace mettere nel rap tutta la musica che amo come il pop, il rock, la tecno, la sudamericana e molto altro. Il rap può essere qualsiasi musica e un artista rap non deve sentirsi imprigionato e obbligato a fare cose che non lo stimolano solo per paura dei giudizi e dei numeri, anche perché la gente ti giudicherà sia che vinci o che perdi. È stato un dramma sia a livello umano che artistico perdere i tre grandi maestri che ci avrebbero portato nel 2030, Pop, Nipsey e Triple. Attraverso i dischi postumi di Triple e Smoke abbiamo capito quanto abbiamo perso, sono sempre fan della Quality Control Music, della Ovo Sound, GBE, ma con quelle perdite abbiamo perso tutti tantissimo… ovvero il futuro. Credo che quel periodo chiamato del bboy fiero sia stato il periodo più ipocrita e fallimentare del rap italiano dove il rap è stato davvero ucciso dai rapper. La vera nascita del rap italiano è arrivato con il film di Eminem, dove la potente arma del cinema ha spiegato il fascino di questo genere musicale al pubblico di tutto il paese, facendo entrare oggi il rap nella tradizione della musica italiana.
Tornando a quel brano, sì, la strofa contenuta in “Il ragazzo d’oro” sia stata una rivoluzione involontaria e spontanea fatta per gioco.
Secondo me è necessario fare delle rotture ogni tanto con il passato per far continuare a vivere un genere che ami, anche se il prezzo da pagare è sempre alto.
Non possiamo che aprire anche il capitolo relativo alla Dogo Gang: eravate una grande famiglia, cosa non ha funzionato fino in fondo nei meccanismi e nelle dinamiche di gruppo?
Nulla di che, non ha funzionato perché sono una gang e un club di infami che si rimangiano pure le canzoni fatte contro gli altri. Tutto qui.
Da adolescente, dicevamo, hai incontrato il rap e la cultura hip hop, cosa che a quei tempi non era affatto facile, dato che era molto più normale imbattersi nel rock o nel punk, per limitarci a degli esempi: cosa ascoltavano i tuoi genitori? Sei stato in qualche modo influenzato dagli ascolti familiari?
Io sono cresciuto con i miei nonni in un paesino, e attraverso la passione di mio nonno per la musica classica, il mio primo amore è stata la musica sinfonica con i grandi maestri come Brahms, Rachmaninoff, Mozart, Chopin e Beethoven. Poi sono passato ai Doors e quando vivevo a Londra nel 1987 ascoltavo ripetutamente il disco dell’anno, Appetite for Destruction dei Guns. Il video di “Paradise city” che vedevo sempre su Dj Television mi aveva veramente sconvolto.
A Londra andavo in giro con la cresta punk più alta di me inzuppata di colla di pesce, le Dr. Martens, la maglietta smanicata del primo disco degli Iron Maiden e i jeans stretti strappati. Praticamente come un trapper oggi. Londra negli anni 80 era una giungla e di notte scappavo a Brighton, praticamente dalla giungla agli incubi, sui moli pieni di slot machine e sotto nel buio della Manica dove succedeva di tutto. Ma continuo anche oggi ad amare e ad ascoltare il rock, la sinfonica, la contemporanea e la dodecafonica.
In generale, hai sempre coniugato gli aspetti più raw e street del rap ad una scrittura più poetica ed evocativa, intima e attenta al dettaglio. Vuoi parlarci di questo aspetto e di come si è evoluto negli anni? Come hai bilanciato le due spinte?
Quando vivevo a Roma, leggevo la letteratura americana di Henry Miller e le poesie di Bukowski, ed è in quel preciso periodo che ho avuto l’intuizione di inserire questo tipo di linguaggio americano e questi autori nelle mie Canzoni. Mi è subito piaciuto questo metodo perché come hai scritto prima in loro c’era già strada e poesia, io ho solo messo questi due elementi nelle canzoni rap. Mi piace molto la via di mezzo nelle cose, mi sembra di essere un po’ più vicino alla realtà, anche se nelle canzoni più belle non c’è mai niente di vero, ma le canzoni non sono quotidiani, sono fatte per far sognare.
Anche se le categorie sembrano comparse, si ragiona ancora per definizioni: ti da fastidio essere incanalato in un genere che è necessariamente diverso a quello che facevi? Che i ragazzi di oggi ti conoscano magari solo per i lavori più recenti?
No, non mi da assolutamente fastidio, ma credo che un rapper o chiunque altro faccia musica debba essere libero di sperimentare e mischiare più generi anche se poi viene giudicato duramente. Esempi come Astor Piazzolla o Herbie Hancock devono farci riflettere, la loro sperimentazione nel tango e nel jazz hanno arricchito e migliorato questi due generi, non li hanno danneggiati o sporcati come i critici hanno affermato più volte. All’inizio una cosa nuova può sembrare sbagliata, ma se il pubblico, soprattutto quello italiano avrà più pazienza, riuscirà a capire prima il futuro.
A proposito del rap italiano, dove credi stia andando? Quali sono le cose che ti piacciono? Intendo anche nel mainstream…
Penso che il rap sia entrato finalmente nella tradizione musicale di questo paese e sta migliorando sempre di più sia nell’underground che nel mainstream attraverso i lavori dei giovani rapper. Sono molto contento ora del rap italiano, anni fa quando ho iniziato tutto questo sembrava solo un miraggio e non pensavo davvero che si arrivasse a un punto simile. Credo che il pubblico se si affezioni a un brano poi va a ricercare i brani che l’artista ha prodotto nel tempo, grazie alle piattaforme digitali.
Hai collaborato quasi con tutti, nella scena italiana: un artista invece con cui ancora non lavorato e con quale ti piacerebbe fare un featuring?
Mi piacerebbe collaborare con artisti fuori dal rap, dove posso imparare qualcosa da veri artisti e dove non vengo copiato da personaggi che usano la mia musica per vendere dischi per poi chiamarmi nel modo più viscido possibile quando mi incontrano, maestro.
Siamo quasi al termine dell’intervista: se fai un bilancio della tua carriera oggi quali risultati pensi di aver raggiunto e quali rimpianti rimangono? A posteriori, ritieni di essere stato capito del tutto oppure no? Rimpianti?
Credo sinceramente sia un po’ presto per fare bilanci e rimpianti.
Allora chiudiamo con una domanda di rito: cosa ti aspetti dai tuoi nuovi lavori, e soprattutto da quest’anno appena iniziato?
Mi aspetto quello che ho sempre aspettato, fare la guerra per fare l’arte, anche se volevo solo disegnare e scrivere canzoni.