Natty Dub è un musicista e beatmaker di Torino, componente dei Funk Shui Project, molto attivo anche da solista con numerose produzioni tra album, singoli e quant’altro. L’abbiamo contattato qualche mese fa per parlare del suo ultimo lavoro, The purple cloud, pubblicato da Beat’s Tailors, una nuova, piccola etichetta indipendente bolognese che nell’ultimo periodo sta pubblicando cose interessanti, nel panorama beats e dintorni.
Ti va di parlarci un po’ del concept e della gestazione di The purple cloud? Dal comunicato stampa leggo che è stato concepito durate il primo Lockdown. Immagino sia stato influenzato pesantemente dalla Pandemia ancora in corso.
Assolutamente si. Mi sono ritrovato a casa in totale solitudine e ne ho approfittato per mettere in discussione e rivedere tutto del mio sound, dal Workflow alle librerie di suoni, ai Bpm, ho anche iniziato a suonare la chitarra. Il risultato è proprio in questo tape, dove ho cercato di trasferire in suoni le emozioni e le sensazioni di quel periodo che, ci tengo a dire, non sono sempre state negative. L’idea di avere tutto il tempo del Mondo a disposizione della mia crescita artistica è stato molto stimolante. Ho quindi attinto da diverse reference, da Morricone al Lo-fi, al Jazz e all’Hip Hop della Golden Age, uniti a letture e film sul genere pandemico o post-apocalittico. Quando ho concluso il lavoro mi è capitato di vedere pubblicate le foto di un amico di vecchia data, Paolo Aquilina, che aveva catturato delle immagini in una periferia Torinese desertica e nebbiosa nei tragitti verso il lavoro in pieno Lockdown. Quelle foto sono diventate poi l’artwork di The purple cloud.
Infatti sin dal titolo che dalla copertina è centrale il rimando al colore porpora. Hai lavorato anche cercando di creare una pasta sonora che potesse ricordare quel colore, perlomeno a livello di sinestesia?
Il vero motivo di questo titolo sta nel richiamo al libro omonimo di Matthew Phipps Shiel, pubblicato nel 1901, ben 120 anni fa. Parla di una nube di color porpora che ha estinto la popolazione mondiale, ad eccezione del protagonista, che si ritrova completamente in solitudine e decide di girare il mondo, spesso lasciandosi alle spalle intere città in fiamme. Un uomo da solo con tutto il pianeta a disposizione, è un pò la sensazione che ho provato quando ho realizzato cosa stavo vivendo.
Quindi il richiamo più che altro è stato in generale verso la letteratura del genere distopico, che ho approfondito nell’ultimo anno. Ho voluto creare una pasta sonora che desse ai beats l’idea di essere stati ritrovati in un vecchio nastro in una città ormai distrutta.
Il modo in cui lavori i campioni a mio parere è grandioso. Così come il modo in cui li amalgami con le parti – immagino – suonate. Qual è la tua metodologia di lavoro in studio? Parti prima da un sample o dalla stesura delle batterie?
Non ho un workflow definito, ogni beat ha il suo modus operandi. Tendenzialmente mi piace partire da un sample o da un giro armonico, su cui poi costruisco tutto il resto, anche se appena sento un campione che mi piace, o un testo quando lavoro come producer, nella mia testa appare già l’intero arrangiamento, che poi vado a realizzare. Tendo a produrre i miei beats senza accendere il mac, tutto dai campionatori e dai miei synth.
Un altro degli aspetti che mi hanno molto colpito dei tuoi beats è che – come dire – si sviluppano sia in verticale che in orizzontale: diciamo che sei attentissimo sia alla parte melodica che alla stratificazione del suono. È solo una mia impressione?
Mi fa piacere che tu abbia colto questo aspetto. A mio parere ci sono due fattori che rendono una produzione musicale accattivante: il groove e la melodia. Ricerco in questi due aspetti l’essenzialità più totale, tendo a ridurre al minimo le tracce (non supero mai le 8) e impiego la maggior parte del tempo nella ricerca del suono perfetto e di una pasta sonora convincente, soprattutto per le drum. Le melodie mi nascono spontanee, non ho mai studiato in maniera didattica la musica, mi aiutano un buon orecchio e una giusta dose di gusto.
Fai parte dei Funk Shui Project. Il fare parte di un gruppo ha modificato o in qualche modo influenzato il tuo lavoro di beatmaker?
Fare parte di questo gruppo sicuramente si. Ormai 10 anni fa sono entrato in questa Crew, che all’epoca era in fase embrionale, e ho dato il mio contributo nel plasmare il sound del progetto. All’epoca suonavo in diversi gruppi per lo più musica reggae come tastierista, quindi ho avuto l’occasione di rimettermi sui beat con più costanza e di costruire le basi per un percorso solido. Il progetto dei Funk Shui è quello dove la mia anima da beatmaker incontra quella da musicista e lavorare con Jeremy (bassista e fondatore) per me è sempre motivo di crescita.
Quanto ti è mancato non poterti esibire dal vivo con continuità in quest’ultimo periodo?
Se devo essere sincero non molto, soprattutto perché lo stop ai live è arrivato dopo due anni di tour intenso coi Funk Shui e sentivo il bisogno di fermarmi e di rimettermi a studiare. In questo momento sento di poter dare di più come produttore da dietro le quinte che non come musicista da palco.
Cambiamo discorso. Quali sono gli strumenti che più utilizzi per produrre?
Sicuramente i campionatori: ho un MPC 2000xl, un MPC Live, un Roland 404sx e un Novation Circuit, oltre ai miei vecchissimi Technics 1200. Uso raramente VST, sostituiti dai suoni della mia Nord Stage e di una chitarra Fender Telecaster. Come Daw uso unicamente Logic Pro X e attingo da una libreria di suoni personali che coltivo da tantissimi anni prendendo sample dai miei dischi o da alcune librerie selezionate.
Lo scorso anno sei stato uno degli artisti selezionati dalla Roland per “Sp404 Contest”. Cosa ci puoi dire a riguardo? E riguardo al tuo rapporto con l’Sp 404, che ormai è diventato a tutti gli effetti un macchinario iconico..
Il 404 è stato il mio primo campionatore, una sorta di primo amore. Quando ho visto che c’era un contest ufficiale della Roland sentivo di poter dire la mia. Nel tempo ho imparato molti suoi trick e ho amato tutti i suoi limiti che ne fanno uno strumento per me indispensabile, sia come strumento per i live che come supporto per tutte le produzioni in generale. Si è diffuso molto ma sono pochi i beatmaker che lo usano per produrre, viene tendenzialmente usato per lanciare e filtrare i beat dal vivo, proprio per i suoi limiti rispetto a campionatori più evoluti o alle Daw tipo Ableton Live.
Tuttavia ritengo che avere dei paletti nel mondo immenso della produzione digitale dia più spazio alla creatività e faccia emergere maggiormente il talento musicale.
The purple cloud esce per Beat’s Tailors, una piccola etichetta di Bologna specializzata in beatmaking. Come sono nati i contatti tra voi, e come vedi la scena di beats nel nostro Paese?
Il fondatore di Beat’s Tailors, F.o.x (Alessio Volpe), è stato mio allievo in passato e nel tempo ha dimostrato un’attitudine immensa, diventando un beatmaker importante a livello internazionale e diffondendo il verbo sui social tramite quella che inizialmente e era solo una pagina Instagram in crescita. Insieme a lui abbiamo provato a proporre il mio tape a diverse realtà che ci hanno risposto «troppo avanguardistico per il nostro catalogo». Alessio ha preso la cosa come stimolo per creare qualcosa di nuovo, una Label dove poter pubblicare beat senza doversi per forza omologare a quello che è ormai il saturo mondo del Lo-fi. The purple cloud rappresenta la prima release ufficiale della label.
Progetti per il futuro?
Ho già pronte alcune tracce strumentali che usciranno in autunno e con i Funk Shui stiamo lavorando ad un nuovo album. Inoltre ho da poco fondato un’etichetta indipendente, Infinite Loop Music, per dare spazio agli artisti emergenti con cui sto collaborando in veste di producer. C’è tantissima musica pronta nel mio Mac, progetti in cui credo ciecamente e che non vedo l’ora di diffondere.