L’intervista a Nicolas Cunial, vincitore del Premio Dubito di Video Rap e poesia

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Nicolas Cunial, classe 1989, è un poeta-performer, nonché slammer di lunga data e tra i più apprezzati in Italia. Ha pubblicato con Edizioni La Gru tre libri di poesia: Pillole di carne cruda (2012); Carie di città (2013); Il sosia zero (2015). Nel 2016 invece esce per David&Matthaus il romanzo L’innocenza della fuga. Tra i fondatori della LIPS – Lega Italiana Poetry Slam, ne è stato il vice Presidente dal 2014 al 2016. Dal 2018, gira l’Italia con il suo spettacolo Black in / Black out, vincitore del “Premio della Critica” del Palio ErmoColle 2020 e tratto dall’omonimo libro uscito nel 2019 per Interno Poesia. Nello stesso anno, con le sue opere di spoken music, risulta finalista al Premio Dubito, mentre nel 2019 vince il Premio Sinestetica per la miglior videopoesia con In discotesta. Nel 2021 il brano continua a essere apprezzato con la finale al premio La poesia che si vede e soprattutto con la meritatissima vittoria del Premio Dubito di Video Rap e poesia, che ci vedeva tra i giurati in quanto media partner della manifestazione. Lo abbiamo intervistato per farci raccontare la sua storia, come è arrivato a questa interessante commistione di linguaggi e naturalmente le sensazioni provate in questi due anni di pausa dichiaratamente forzata.

ll tuo brano In Discotesta dopo aver vinto nel 2019 il Premio Sinestetica – Miglior Videopoesia ha confermato la sua forza espressiva e ha vinto anche il premio Alberto Dubito di Video Rap e Poesia. Immagino che per te sia stata l’ennesima dimostrazione di un percorso che ti sta dando parecchie soddisfazioni, ma anche la conseguenza di una sorta di fuga da una condizione umana, quella della depressione, che descrivi in modo quasi cinico. Come nasce il brano?
Certamente fa piacere quando il risultato di una tua ricerca espressiva trova il plauso di un agente esterno che ne conferma la validità, non sono sufficientemente distaccato dal mio ego per non provare un pizzico di vanitosa gioia. Non è però una fuga, anzi ho sempre pensato al progetto Black in / Black out di cui “In discotesta” fa parte come la messa in scena delle crepe, una dose di realtà violentemente travasata nella poesia e che dalla poesia si riversa nella realtà dello spettatore. Queste tematiche sono oggi ancora molto indietro in termini di accettazione, accoglimento e comprensione, la mia volontà era di ricreare le dinamiche che avvengono quotidianamente, risaltare all’estremo la norma per provare a depotenziarla. La metafora è semplice: se ogni volta che qualcuno soffre, e comunicando questa sofferenza, trova ascolti disinteressati, fugaci, fino addirittura di disprezzo, non è molto diverso che andare in discoteca e provare a parlare con qualcuno sotto cassa. Ecco: io vi parlo della sofferenza sotto cassa, gli spettatori possono scegliere se ascoltare il testo, se lasciarsi inglobare dalla performance per estrarne un senso più conglomerato o se invece farsi distrarre dagli orpelli dimostrando così che quel che cerco di combattere esiste veramente.

Per quel che mi riguarda, ogni volta che l’ascolto mi fermo sulla frase «forse dovresti vedere qualcuno» che mi sembra racchiuda tutta l’inquietudine dell’uomo moderno o della percezione che gli altri hanno di questa condizione…
Infatti, è esattamente ciò a cui mi riferisco: nella poesia, come in tutte quelle che compongono lo spettacolo, metto in luce i sintomi clinici della malattia, la sua espressione verso l’esterno e la risposta da parte di quest’ultimo a tale stimolo. Da fuori giunge sempre una semplificazione drammatica della malattia, un voler ricondurla a qualcosa di più semplice perché la verità è che non sappiamo gestirle. Avere a che fare con un malato mentale è molto difficile, perché siamo incapaci, specie se la malattia non comporta disfunzionalità pesanti, di empatizzare davvero, riportando l’osservato alla nostra esperienza, che però non ha mai avuto la sfortuna di passare attraverso un simile percorso. Certo, non devi soffrire a tua volta per comprendere la sofferenza di qualcun altro, sarebbe sufficiente informarsi e studiare per capire come trattare al meglio l’essere umano.

Da come ne parli e da come lo racconti, sembrerebbe esserci molto di autobiografico…
Solo in parte, la parte necessaria a immettersi con coscienza in un percorso. L’autobiografia a volte è un limite, bisogna andare oltre il sé per conoscersi e riconoscersi nel mondo. Ho sofferto di qualche disturbo e sebbene possa dare loro il merito della miccia, dell’innesco di tutto quanto ho poi prodotto, sarebbe falso se confondessi la mia esperienza con l’esplosione. Quella è venuta immergendomi a pieno: ho frequentato psicologi, psichiatri, malati e visitato ex manicomi. Ho fatto ricerca, ho studiato. La realizzazione di quanto avevo in mano è avvenuta a reazione esplosiva conclusa. Il prodotto di combustione che m’è rimasto in mano, l’ho chiamata poesia.

Il brano fa parte di un progetto più ampio, un ep chiamato Black in / Black out dove il linguaggio del rap si fonde con la musica elettronica. L’ho spiegato abbastanza banalmente, perdonami, ma lo scopo era chiederti come ti sei avvicinato a questa forma espressiva. Se non sbaglio tu nasci poeta, essenzialmente.
Il brano fa parte di un progetto multimediale, in cui sono compresi uno spettacolo, un libro, un ep, e una plaquette di video. Il progetto ha come corpo-tronco il testo, da cui si estendono delle braccia che avvolgono il corpo della musica, del video, della carta, dell’evento-performance. Quindi i linguaggi che vengono coinvolti e codificati sono molteplici. Sì, direi che nasco poeta, anche se ho adolescentemente navigato i meandri del rap e della prosa. Sono giunto alla commistione di linguaggi per puro piacere e interesse: con il rap mi ero interessato di musica, in particolare elettronica; con la poesia mi sono interessato all’oralità; dall’oralità sono passato alla performance. Alla fine il circuito è piuttosto semplice: si tratta di cercare di scardinare il contemporaneo attraverso il contemporaneo, rendendolo futuro anticipato, nuovo contemporaneo. Almeno finché una nuova ideologia non ci verrà a soccorrere.

Ne abbiamo avute già tante di ideologie, e in alcune ci abbiamo anche creduto in modo eccessivo, forse. Facendo un po’ di sana fantapolitica, una formula che potrebbe funzionare nei prossimi 100 anni?
Dici? Io non penso che ne abbiamo avute poi molte, e solo in una mi sembra che ci abbiamo creduto troppo, con il risultato che è sotto gli occhi di tutti (mi riferisco al capitalismo). Esistono molte ideologie che, a prescindere, non si prendono mai in considerazione, a favor di giustificazione: ormai il mondo è troppo complesso per cambiarlo; non c’è alternativa vera percorribile; le alternative le abbiamo provate e sono fallite; se vista retrospettivamente, l’umanità non è mai stata meglio. Io l’unica formula che conosco oggi che possa funzionare anche fra 100 anni è la seguente: ogni diritto non lesivo di una libertà fondamentale altrui deve essere tutelato. Se sono gay, ho il diritto di sposarmi come tutti e di chiamarlo matrimonio, poiché non lede nessun altro il mio diritto. Se voglio consumare cannabis la sera prima di addormentarmi e coltivarmela in casa, ne ho diritto poiché non faccio danno a nessuno. E così via. Laddove i danni altrui esistano, vanno messi in relazione al danno del mancato godimento del diritto (come nel caso dell’eutanasia, per esempio). E la presenza a se stessi, stare in un processo di pensiero costante. Bisogna puntare molto sulla cultura, oggi è l’unica arma a permetterci di vivere liberi nell’unico luogo in cui lo siamo: la mente.

Credo da sempre, conscio di dire una banalità, che l’atto del creare qualcosa sia condizionato da innumerevoli fattori. Cinema, arte, cronaca, eccetera. Ci piacerebbe sapere in questa questa piccola intervista, chi è Nicolas Cunial. Quali sono, per esempio, le cose che contano per lui.
Artisticamente parlando, tutto. Ovviamente poi il principio di piacere mi porta a preferire alcune declinazioni (cinema, musica) rispetto ad altre (danza, arte pittorica), ma cerco di assimilare il più possibile da tutto. Sono sempre stato ambiguo, mi muovo lungo i bordi delle categorie, motivo per il quale ho sperimentato molto e nulla di ciò che ho fatto è simile al lavoro che lo precede. La mia formazione del resto ne è un esempio: mi sono diplomatico in chimica, laureato in scienze politiche e ora sto compiendo un nuovo ciclo universitario in lettere. Conta molto quindi lo studio, la vocazione, la dedizione, la ricerca.

«Il miglior poeta non è quello che vince» è il motto della coppa del mondo di Poetry Slam di Parigi. Sei d’accordo?
Direi di sì, perché semplicemente il miglior poeta non esiste. Il concetto di poeta riconosciuto, storicamente valido al di là del suo arco biografico oggi è probabilmente impensabile, la nostra è una società che tende a produrre più che a creare, e il prodotto è sempre più spesso disidentificato, come se fosse la storia a produrre e non più l’autore. La poesia inoltre gode e soffre dei medesimi limiti di tutte le arti: la distinzione in categorie o generi. Il miglior poeta del ‘900 chi dovrebbe essere, Montale? Non saremo mai tutti d’accordo, sarebbe un’acclamazione per maggioranza che vive la stessa illusione che realizza: un dominio del genere sui generis. Non esiste il miglior poeta, nemmeno la miglior poesia, ma esiste un miglior modo di farla, ed è esplorare l’esplorabile, conoscere il conoscibile.

La pandemia e il lockdown hanno scosso profondamente la coscienza collettiva degli italiani, con le conseguenze che stiamo notando in questi ultime settimane. Fermo restando che il claim ne usciremo migliori ha clamorosamente fallito le previsioni, mi piace sempre pensare alle parole di Elio Petri: «l’ultima linea di resistenza è quella di fare le cose bene». Cosa pensi di tutto quello che sta succedendo?
La citazione di Petri è perfettamente calzante, ma si potrebbe obiettare: esiste un modo di fare bene le cose? In mancanza di un’ideologia che organizzi le idee e la promozione delle stesse al fine di costruire una società, si resta impigliati nella gestione tecnica dei problemi di ordinaria amministrazione. Così, però, la politica viene meno alla sua necessaria forza propulsiva: immaginare, ideare un futuro. Da quando sono ragazzino, interessandomi di politica, ho visto un progressivo depauperamento dei moti politici ideologici, questo perché il realismo capitalista del there is no alternative ha vinto ed è ai suoi massimi albori, e quindi nella sua massima fase di decadenza. Non c’è, però, un burrone dopo, grazie al quale potremmo immaginare quale nuova montagna scalare, ma una stasi, un coma, una depressione che ingloba chiunque abbia voglia di costruire un’alternativa. Non saremmo potuti uscirne migliori: siamo troppo immaturi.

Prima di lasciarci l’ultima domanda, abbastanza referenziale: stai lavorando a qualcosa di nuovo?
La pandemia mi ha lasciato molto tempo per riflettere. Prima del covid stavo lavorando, e il lavoro procede, su uno spettacolo multisensoriale e intermediale, ma dopo che la storia è tornata prepotentemente a farsi sentire, ho sentito il bisogno di dedicarmi poeticamente anche all’oggi, ma non dall’oggi. Non posso dire molto di più.

 

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