In occasione del suo nuovo libro, Educazione Rap, Amir Issaa ci concede una chiacchierata piena di spunti e curiosità riguardanti le esperienze vissute negli ultimi anni. Una vita dedicata all’Hip Hop, il mezzo che Amir ha usato per esprimersi e che usa attualmente per raccontare la sua storia nelle scuole e in tanti altri contesti. La rappresentazione più assoluta della forza espressiva di questo genere, calpestato dai classici stereotipi ma rimasto comunque in piedi, grazie anche all’opera seconda del rapper romano.
Quando è nata l’idea di Educazione rap? Cosa, oppure chi, ti ha stimolato a mettere su carta tutte le esperienze che hai vissuto negli ultimi anni?
La pubblicazione del mio primo libro, Vivo per questo, mi ha aperto la strada della scrittura libera che non fosse legata necessariamente alla stesura di un testo rap. L’idea di scrivere un nuovo libro era nell’aria ma dovevo capire bene in che direzione andare. Volevo dimostrare a tutti che un rapper può scrivere libri non per forza legati alla pubblicazione e alla sponsorizzazione di un disco. Mi è arrivata una richiesta da Rizzoli Education, una branchia di Rizzoli che si occupa di testi scolastici. Due anni fa mi chiesero di inserire il testo di una mia canzone, “Guerrieri”, all’interno del loro libro “Mondi narrativi”. Vedere il mio testo insieme ai capolavori di De André è stata una bella soddisfazione. Da quel momento, durante la pandemia, ho pensato che tutte le esperienze che avevo vissuto, dal rap alle università, potevano essere messe su carta. Ho iniziato a pensare che l’idea giusta fosse quella di realizzare un libro per la scuola italiana che parlasse dell’Hip Hop. L’obiettivo principale è infatti quello di divulgarlo come libro di testo per gli studenti. Il libro è rivolto anche a chi vede questo genere con diffidenza e lo giudica ragionando tramite stereotipi. Un modo per dire che il rap non è solo macchine, soldi e donne ma un modo per raccontare la propria storia e le proprie esperienze
Più volte nel libro nomini tuo figlio Niccolò. Come vede il tuo lavoro? È appassionato anche lui di Hip Hop
Rispetto ai suoi compagni di classe è più fortunato a livello di conoscenza musicale, perché essendo cresciuto con me ha assorbito i miei ascolti e i ragionamenti che facevo con i miei amici. Già in tenera età conosceva Nas, Biggie e tutte le fondamenta che costituiscono questo genere. Pian piano però gli ho lasciato vivere la sua vita. Adesso ascolta di tutto: nella sua playlist non c’è solo il rap, c’è la musica che gli piace non relegata ad un singolo genere. Quelli della mia generazione sono cresciuti in un contesto diverso, in cui l’Hip Hop non aveva tutta questa esposizione. All’epoca il rap non era alla portata di chiunque, e tutti quelli come me vedevano questa roba come qualcosa di importante, quasi come una religione. Adesso il rap si ascolta anche perché fa parte della contemporaneità, è cambiato proprio l’approccio.
A questo proposito, molti rapper riscoprono solo in questi anni dei classici assoluti della musica, proprio perché nella loro adolescenza esisteva solo il rap..
Considera che quando io ero più piccolo non era facile avere la musica, quindi logicamente se andavi a spendere dei soldi compravi quello che ti piaceva. Oggi in dieci secondi con 10 euro al mese ti puoi ascoltare qualsiasi tipo di musica proveniente da ogni parte del mondo. Penso che molti rapper della mia generazione riscoprano certa musica anche grazie a questo.
Come si evince da molti capitoli, i ragazzi di “seconda generazione” saranno innegabilmente il futuro della società occidentale. Questo aspetto si allarga automaticamente anche al rap, visionario sotto questo aspetto ed esempio concreto di melting pot. Il rap francese e inglese sono molto avanti sotto questo punto di vista. La scena italiana come la vedi? Ci sono molti rapper di seconda generazione?
In Italia siamo solo all’inizio. Secondo me, da qua ai prossimi anni, i rapper che occuperanno i posti in classifica saranno tutti ragazzi di “seconda generazione”. In Francia, come dici tu, c’è un melting pot pazzesco e non esiste neanche una categoria “rapper di seconda generazione”. Da Sofiane ai PNL, nel 90% dei casi, sono tutti figli di genitori stranieri. Ovviamente ci sono motivi socio politici legati al colonialismo, ma di base quella roba rappresenta il rap francese. In Italia, invece, siamo ancora un po’ indietro sotto questo punto di vista. Anche se, come dico anche nel libro, uno dei rapper più chiacchierati della scena italiana è proprio Ghali, che viene ascoltato proprio da tutti. Personalmente lo vedo come un leader.
Spesso ignoriamo le sfumature della cultura Hip Hop provenienti da zone del pianeta culturalmente opposte alla nostra, rilevanti e stimolanti come quelle occidentali. In questo senso, alla luce della tua esperienza in Giappone, che differenze hai trovato con la scena italiana? Credi che la scena giapponese sia sottovalutata?
Come puoi immaginare i giapponesi hanno uno stile di vita completamene diverso dal nostro, ad esempio non ci si saluta dandosi la mano. Detto questo, a livello estetico, ti trovi davanti delle persone che si vestono come gli americani, molto più di noi italiani. Quando poi fanno il rap si capisce che è una roba totalmente loro. Hanno il proprio stile e non scimmiottano i testi americani. Mi ha stupito il gruppo Boyle Rhyme: sembrava il suono dei Diggin’ in the Crates ma nel 2018. Puoi letteralmente trovare di tutto, dallo stile anni 90 fino alla trap più attuale. Durante la mia esperienza ho avuto la fortuna di conoscere Shingo, un rapper storico della loro scena che può essere paragonato al nostro Bassi Maestro in termini di importanza. Abbiamo instaurato da subito un bel rapporto, tanto che ha partecipato al videoclip di “Vichinghi e samurai”, girato interamente a Osaka. Il contesto in cui si è sviluppato il rap in Giappone è completamente diverso rispetto a qua in Italia, in cui è nato tutto nei centri sociali. La loro scena è particolare, originale e diversa. Tramite questa esperienza ho capito a pieno quanto l’Hip Hop sia globale.
Il writing è presente?
Purtroppo poca roba. In Giappone sono molto severi e soprattutto molto rispettosi delle leggi e degli edifici pubblici. Non esiste la microcriminalità, infatti se vai a fare un tag in giro ti arrestano subito.
Come vedi l’attuale generazione di rapper italiani se confrontata alle varie scene europee e soprattutto alla generazione precedente?
Come ho anche cercato di far capire nel libro, questa roba che si fa nel 2021 in Italia inizia a diventare un qualcosa di europeo. Basta dare un ascolto alla collaborazione tra lo stesso Rondo e Central Cee, uno dei rapper inglesi emergenti più famosi. Specialmente nei videoclip, noterai che lo stile rimane sempre quello, è diventato un linguaggio letteralmente universale,che si parli di Francia, Inghilterra, Italia ecc.. Altro esempio lampante della scena europea che si sta creando è la collaborazione di qualche anno fa tra Sfera e SCH, uno dei big assoluti della scena francese. Parlando poi del confronto con la generazione precedente, prendiamo ad esempio GRM Daily, un magazine di importanza internazionale che parla di rap. Se dovessero intervistare un rapper italiano non sceglierebbero rapper come me, Fibra o Bassi Maestro, prediligendo la roba più fresca e più simile al suono che va in Europa e logicamente più simile al loro. In questo senso, tutte le critiche che fanno oggi a quelli nuovi sono le stesse degli anni passati. Spesso alcuni rapper della vecchia scuola iniziano a rosicare, vedendo che i ragazzi nuovi hanno un loro stile e che soprattutto hanno un appeal maggiore nei confronti del pubblico.
Tra l’altro, i rapper ancora attivi dell’attuale vecchia scuola, quando hanno iniziato, si sono ispirati a delle sonorità che al tempo erano molto fresche e talvolta criticate. Basta pensare al primo album del Colle Der Fomento,Odio Pieno, ispirato chiaramente a delle sonorità funk appartenenti ad esempio ai Cypress Hill..
Esatto, quando io rivedo le nostre cose vecchie c’è sempre stata un’ispirazione al di fuori della nostra scena. Tutti abbiamo attinto in qualche modo da altre parti. Noi ad esempio ci ispiravamo al suono east coast di New York. I testi ovviamente cambiano ma lo stile viene preso in qualche modo da realtà in cui questa roba era già presente da anni. Non c’è niente di strano, nel 2021, ad ispirarsi a quello che fanno in Francia, America o Stati Uniti.
Carceri, università, scuole medie e superiori, palchi. Sono molti i contesti in cui hai avuto modo di raccontare la tua storia e parlare di Hip Hop. Nonostante il pubblico sia diverso ogni volta, hai trovato degli elementi che accomunano tutte queste esperienze?
Ci sono dei miei brani come “5 del mattino”, in cui c’è un contenuto specifico, che sono universali e funzionano in qualsiasi contesto. I brani più autocelebrativi ovviamente funzionano soltanto in determinate occasioni. Io mi ritengo uno che ha usato il rap per parlare della vita: le mie esperienze, la mia famiglia, l’Hip Hop. Avendo affrontato tanti argomenti ho la fortuna di poter scegliere: se dovessi andare ad una jam, ad esempio, so quali sono le canzoni adatte per quel contesto. Ho anche la fortuna di avere una discografia molto varia che mi permette di scegliere a seconda dei casi. Il saper raccontare qualcosa di profondo, ad ogni modo, è sempre la carta vincente.