Valerio Delphi è un Dj e produttore musicale romano – e romanista! – componente dei Tiger & Woods, duo House di caratura internazionale di cui fa parte assieme a Marco Passarani, veterano della scena dance italiana. I due si sono imposti decina d’anni fa, hanno suonato praticamente in tutto il Mondo, e hanno inanellato una serie di uscite sempre di gran qualità, pubblicate principalmente dalla label tedesca Running Back. Valerio ha partecipato inoltre alla Red Bull Music Academy, ha una grossa collezione di dischi a tematica calcistica e nel tempo libero – oltre ad accumulare sintetizzatori – costruisce strambi Lego con suo figlio.
Face The Music è il suo primo disco solista – una cassetta, in realtà – che raccoglie materiale piuttosto diverso da quello confezionato finora. Si tratta praticamente di un beat-tape Hip Hop sullo stile di Madlib o J Dilla, da cui trasuda un’attitudine pluriforme al campionamento, già molto presente nei Tiger & Woods, qui però declinata da un’altra angolazione. Un lavoro denso e vario, caratterizzato da una pasta sonora decisamente originale.
Cosa puoi dirci del tuo background musicale?
Io vengo da una famiglia tutto tranne che musicale, quindi quello che ho imparato a conoscere è stato veramente un percorso personale, grazie anche alle persone che ho incontrato durante il tragitto. Come qualsiasi adolescente, non così fortunato da avere a disposizione collezioni intere di dischi, principalmente ascoltavo la radio.
A 14 anni, senza un vero motivo, ho deciso che volevo mettere i dischi, perché ne ero affascinato. L’impresa era un po’ più ardua di adesso, anche solo economicamente. Da lì sono iniziate le prime feste – tipo il sabato pomeriggio – o le prime serate.
Contestualmente è iniziata la mia personale ricerca musicale all’indietro, ho letteralmente divorato musica, costruendo il mio personale background. Ho imparato ad amare le sonorità Funk, Disco, House, Techno e Hip Hop. Per me non c’è mai stata una grossa differenza fra un pezzo di Underground Resistance, un beat di J Dilla o un pezzo degli Autechre; o fra un pezzo Chicago House e un pezzo Freestyle o Italo-Disco. Sono letture diverse della stessa cosa: tutte interpretazioni dello stesso concetto, ed è molto difficile separarle con una linea nella mia testa.
Da quanto produci anche Hip Hop?
Per lo stesso discorso, la produzione ha seguito il percorso medesimo. Non so mai bene cosa andrò a fare quando mi metto a suonare. Ho le mie referenze, non vado completamente a briglia sciolta, dipende molto anche dal momento e dal progetto. In modo particolare i beat sono da sempre una mia piccola comfort zone. Mi piacciano i dischi, mi piace campionare, e inevitabilmente è una cosa che ho sempre fatto, senza investirci nemmeno troppo. Diciamo che flippare un campione è da sempre uno dei miei passatempi preferiti, e spesso questi flip prendono la forma di un beat.
Come si è concretizzato Face The Music?
Per eventi ben noti, la mia comfort zone si è dilatata a dismisura. Mi sono ritrovato nel giro di pochissimo – come tutti – chiuso a casa, senza poter andar a fare una buona fetta di quello che è il mio lavoro: che sono le serate. Concepire musica da dancefloor, in un momento del genere, con tutti i locali del Mondo chiusi, per me era diventato davvero difficile.
Di solito, sia da solo che con il progetto Tiger & Woods, assieme a Marco Passarani, io faccio musica funzionale, da ballare. E non vedere il fine ultimo, quando fai musica, devo dire che è stato pesante. Ho continuato a farlo, certo; ma con tutto questo tempo a disposizione ho dedicato più spazio ai miei beat, quasi in auto-protezione. Ne è risultata una prima raccolta, Trough The Window, che ho fatto uscire l’anno scorso sul mio Bandcamp, fatto solo con i dischi e un piccolo campionatore.
Face the music invece nasce dall’incontro con i ragazzi di Spalato Wyale, che hanno scovato il mio lavoro solista, e che hanno pensato avesse senso fare una cosa assieme, come prima uscita della loro neonata etichetta. Per i due-tre mesi successivi quindi ho fatto beat a raffica, principalmente con l’SP 303, che è uno dei pochi strumenti che mi consente una certa velocità, e soprattutto ha il suono che volevo. Ho deciso di dedicare tantissima attenzione tanto al processo quanto alla parte creativa. Ho usato il computer in piccolissima parte, facendo overdub a cascata fra i vari campionatori e cassette, per raggiungere infine la pasta che volevo. È stata un’ esperienza molto divertente, che personalmente mi ha aiutato a riavvicinarmi alla musica e al piacere di farla, in tutti i suoi passaggi, dedicandole il giusto tempo.
Hai mai pensato anche di produrre beats per un artista Rap o addirittura produrre un intero album a qualcuno?
Lo penso sempre. È quello che vorrei fare un giorno. Un buon beat ha senso solo se funziona bene con una voce, se le lascia abbastanza spazio. Buona parte dei miei beat sono molto più “arrangiati” del normale, ma credo che quella sia la mia personale compensazione alla carenza della voce che è, e sarà sempre, il centro di un pezzo. Un buon beatmaker è funzionale all’mc, che se sa fa fare bene il suo lavoro, porta il pezzo ad un livello superiore. Quindi sì, sarei molto curioso di vedere i miei beat funzionali a qualcuno.
Quali sono gli artisti che più ti hanno ispirato nella tua formazione?
Ho dei riferimenti ben precisi a seconda di quello che ascolto. Se si parla della sfera Hip Hop, ho produttori che sono proprio una referenza per suono e approccio. J Dilla, Madlib, MF DOOM e la Stones Throw in generale. Ma anche un beatmaker come The Alchemist mi piace molto e sa essere molto più diretto. Se devo indicare un disco che mi ha rivoltato la testa a livello produttivo sui beat, ti dico senza dubbio “Beat Dimension Vol. 1”, su Rush Hour. Ecco, lì per me è cambiato tanto. Flying Lotus, Samyiam, Dabrye, Harmonic 303, Mike Slott, Brainfeeder. Quella è roba che è entrata nella mia testa per non uscirne più. Nel mio piccolo mondo Hip Hop, per me quella è stata una piccola rivoluzione, a cui sono molto legato.
Fuori dalla sfera Hip Hop invece citerei senza dubbio Prince, che unisce molti dei miei puntini. Poi c’è ovviamente la parte più House e Techno: Underground Resistance, Chicago Trax, Ron Hardy, Theo Parrish e una miriade di altre cose.
Quali sono secondo te le differenze maggiori tra la produzione di un beat Hip Hop e una traccia House?
Per me veramente nessuna. Solo il fine ultimo, l’intenzione, ossia quello che vorrei che l’ascoltatore provasse durante l’ascolto. A livello tecnico però non c’è una grossa differenza. Il groove è groove. A 80 BPM, come a 180. Di nuovo: sono declinazioni della stessa cosa.
Che strumentazione utilizzi per creare i tuoi beats?
Se è beat nudo e crudo, campionatore per forza. Principalmente uso l’SP 303, MPC 1000 o PO-33. Sono convinto che i campionatori abbiano un’anima, o perlomeno mi piace pensarlo. Se è senza campione, uso Ableton Live come DAW, e un sacco di drum machine e synth esterni. Non ho outboard perché ho sempre e solo comprato “giocattoli” che emettessero suoni, per gratificare la mia fame di soddisfazione istantanea.
Dato che sei così fissato coi campionamenti: qual è secondo te l’elemento che contraddistingue un ottimo sample?
Per me è fondamentale quanto spazio mi lascia per lavorarlo. Se trovo un loop perfetto, mi interessa fino ad un certo punto. Se trovo invece una frase che mi lascia spazio per un flip interessante o un loop storto o inusuale, allora potenzialmente è quello buono.
Per concludere, due parole riguardo alla situazione che si è venuta a creare con la Pandemia. Tu di lavoro vai in giro a suonare, come vedi in questo senso il futuro di questa attività?
Non ho idea, nessuno ne ha una. Ed è abbastanza sconcertante, ad un anno di distanza dall’inizio di questo macello. Il silenzio francamente è diventato insostenibile. È il momento che chi di dovere inizi anche solo a progettare una ripartenza per un settore intero. È la totale assenza di progettualità che mi spaventa davvero, unita a mancanza di sostegno. Questo porta a variabili impazzite che danneggiano ancora di più tutta la categoria ritardandone la ripartenza. La gente è satura, mi pare evidente che qualsiasi forma d’arte e di socialità sia tutto tranne che inutile.
Il vero problema a mio parere è che se ora non verrano sostenute le strutture e gli artisti che fanno questa cosa seriamente, si rischia di lasciare spazio a chi lo farà comunque, perché le persone non si tengono più, e lo si farà male, portando rischi e altra opinione pubblica sbagliata, ritardando ancora di più la ripartenza e la credibilità dei lavoratori seri, in ambito di musica e spettacolo.
Detto questo penso che in questo momento la responsabilità degli artisti di qualunque forma sia enorme, molto più di prima. Ora c’è bisogno di “bello” più che mai, ma c’è da farlo per poco o nulla come ritorno. Quindi si continuerà a fare musica più che mai, anche più di prima. Questo è il punto di partenza. Dove porta non lo so, è la crisi più grande che la mia generazione abbia mai vissuto, ma sono sicuro che sarà anche una fase di grandi possibilità.