
È morto a 80 anni James Senese, leggenda assoluta della musica partenopea e figura chiave nella storia del suono italiano. Sassofonista, cantante, fondatore dei Napoli Centrale, Senese non è stato solo un musicista: è stato un linguaggio, un’identità, un ponte tra la tradizione e la ribellione.
Si è spento a Napoli, la città che lo ha generato e che lui ha restituito al mondo sotto forma di groove, spiritualità e verità. Con lui se ne va l’ultimo grande padre del jazz-funk mediterraneo — ma anche un artista che, senza volerlo, ha insegnato a un’intera generazione di rapper a essere sé stessa.
Il sangue, il sax, la città
James Senese era figlio di due mondi: un soldato afroamericano e una madre napoletana. “Nero a metà”, diceva, non come etichetta ma come destino. Da quella frattura identitaria è nato un suono inconfondibile — a metà tra Coltrane e i vicoli, tra l’Africa e Forcella.
Con i Napoli Centrale, fondati nel 1974 insieme a Franco Del Prete, Senese ha rivoluzionato la musica italiana: jazz, funk e dialetto napoletano fusi in un linguaggio nuovo, urbano, viscerale. La sua voce e il suo sax raccontavano rabbia, appartenenza, dignità. Era musica che non cercava approvazione: gridava, piangeva, amava.
Sul palco, Senese era carisma puro. Sguardo ruvido, parole taglienti, un fiato che sembrava uscire direttamente dal Vesuvio. Mai un compromesso, mai una concessione alla moda. Solo anima e coerenza, due cose che oggi suonano quasi rivoluzionarie. E dentro ogni nota, un messaggio: puoi essere popolare senza essere superficiale, puoi parlare la tua lingua senza chiedere il permesso.

Dal jazz al beat: l’eredità di James Senese nel rap italiano
C’è una linea invisibile che unisce James Senese ai 13 Bastardi, Clementino, i Co’Sang, Speaker Cenzou e tutta la nuova generazione napoletana.
Non perché l’abbiano campionato — ma perché hanno ereditato la sua attitudine. Prima ancora che arrivassero i beat, Senese aveva già insegnato a Napoli che la musica vera nasce dalla strada, dal dialetto, dal dolore e dall’orgoglio.
Quando Clementino fa freestyle, o quando Luchè alterna melodia e verità cruda, si sente quel DNA: la lezione di chi ha trasformato la lingua del popolo in linguaggio universale. James Senese ha fatto capire che si può essere internazionali restando locali, che la musica non deve tradurre ma trasmettere.
Nei 13 Bastardi, nei Co’Sang, fino a chi oggi domina le classifiche come Geolier, vive quella stessa energia: la contaminazione come bandiera, la fierezza di suonare “dal basso”, la convinzione che un accento possa diventare stile. Il rap napoletano — e in fondo, tutto il rap italiano — deve molto al suo spirito: al coraggio di suonare la verità anche quando non è bella.
James Senese non ha mai inciso una barra, ma è stato rap nel cuore.
Ha trasformato la rabbia in ritmo, la periferia in poesia, la voce in arma. E quella lezione continua a vibrare in ogni beat che nasce a Sud.
James Senese lascia un’eredità enorme, che va oltre il jazz e oltre Napoli.
Era il simbolo di un modo di fare musica che oggi manca: onesto, viscerale, necessario.
Quando il suo sax urlava, non era solo una nota — era una preghiera. E quando i rapper di oggi portano la propria verità sul microfono, anche senza saperlo, parlano ancora un po’ la sua lingua.
Addio a James Senese: il suono di Napoli, l’anima del groove, il primo rapper che non ha mai rappato.
