Matteo Fabi aka Styng 253 nasce a Milano a metà degli anni ‘70. Aerosol artist e Art Director, si avvicina al mondo del writing e dell’arte urbana nel 1991 e in pochi anni ne entra a far parte a pieno titolo come writer, diventandone uno dei più celebri rappresentanti stilistici. In questa intervista ripercorriamo a ritroso la sua carriera, partendo appunto dagli inizi e da come è nato il tutto. La trovate in versione integrale sul numero 24 di Moodmagazine, disponibile qui.
Grazie per essere qui, inizio subito con una mia curiosità: qual è la storia della tua tag? Mi è sempre piaciuto il tocco newyorkese del numero accanto al nome, come Taki 183 ad esempio, giusto per citare un nome che conoscono tutti. Perché l’hai scelta? È stata sempre quella fin dagli inizi?
La storia della mia tag è una storia molto normale e molto classica nel mondo del writing. Da ragazzino alle partite di calcio per strada in quartiere, nel gruppo c’erano altri due amici più grandi che si chiamavano Matteo come me. A quei tempi per giocare mia madre mi faceva indossare spesso una maglietta di “Sting in tour”, appartenuta penso a qualche cugino perché non ho mai visto un concerto di Sting in vita mia (ride n.d.r.). Quindi mentre giocavamo, per chiamarmi e per non confondermi con gli altri due, non trovarono idea migliore che chiamarmi appunto Sting.
Quando ho iniziato a dipingere al momento di fare la prima firma, nel 1991 ho pensato semplicemente che un soprannome lo avevo già e quindi di usare quello, cambiando solo la lettera Y al posto della I per renderlo un po’ originale. Un paio di anni dopo ho inserito 253, emulando i primi writer americani e come loro è legato alla zona in cui sono cresciuto. Da allora la tag è sempre rimasta la stessa.
Per chi non conoscesse la tua storia e soprattutto i tuoi primi lavori, come erano i primi pezzi e come ti sei evoluto per arrivare a ciò che fai oggi? E di conseguenza come hai visto cambiare il writing?
Nei primi anni 90 i miei primi pezzi erano ispirati a quello che vedevo intorno a me in zona est a Milano. Infatti prima ancora dei writer americani, che all’inizio conoscevo molto poco, guardavo ai pochi ragazzi che dipingevano in quartiere. Poter osservare e studiare ad esempio i PWD, mi ha dato l’opportunità di crescere velocemente stilisticamente, anche perché il writing fin dal primo istante mi ha fatto scattare la scintilla. Avevo capito infatti che era il mio mondo, dove avrei potuto trovare una mia anima e un mio punto di vista, e nel quale volevo eccellere.
Verso il 1995, dopo essermi fatto conoscere in città più per la quantità che per la qualità, ho capito che se avessi voluto fare il salto di qualità e raggiungere il massimo livello per confrontarmi con i migliori avrei dovuto studiare e studiare tanto. Dovevo imparare tutti gli stili e farli al meglio per potere trovare un giorno la mia strada e la mia evoluzione. Ti confesso che il periodo tra il 1995 e il 2000 sono stati davvero anni molto intensi, in cui ero sempre più consapevole dei miei mezzi. Dipingevo ovunque a qualsiasi ora del giorno e della notte. Muri, banchine, metallo, tetti, lungolinea, autostrade: li battevo senza sosta con i miei compagni di crew. Case2, Phase2, A-One, Rammellzee, artisti che poi sono anche riuscito a conoscere, ispiravano il mio stile e incendiavano le mie idee senza darmi tregua. Wild-style, bars-and-arrows, Psycho Futurism, Computer Rock, Ikonclast Panzerism, tutte tecniche che ho voluto far mie tentando di evolverle, per sperimentare attraverso nuovi approcci. Nei primi anni del nuovo millennio penso di aver raggiunto un livello qualitativo molto alto: ero conosciuto e riconosciuto ma allo stesso tempo stanco e insoddisfatto. Ero scarico a livello di energie dopo più di dieci anni supersonici e avevo bisogno di aggiungere altro. In quegli anni, sempre grazie al writing, avevo iniziato a lavorare in pubblicità e avevo deciso di dedicarmi con forza a quello, anche perché era un mondo che mi incuriosiva e affascinava molto. Tra il 2005 e il 2015 pur dipingendo meno ho arricchito la mia evoluzione sviluppando qualcosa di innovativo e affiancando al writing materiali diversi, soprattutto plexiglass e acciaio e proponendo queste idee attraverso canali più istituzionali come gallerie e musei. Pur togliendomi soddisfazioni ho pensato che questa deriva non mi rendeva felice: dovevo tornare in strada.
Da allora ho ripreso a spingere con grande forza e posso dire che oggi sto trovando un mio approccio artistico e creativo che è la sintesi di tutte le contaminazioni di questi 3 decenni. Penso di poter dire che negli ultimi anni ho trovato una mia cifra stilistica personale che mi sta dando soddisfazione, soprattutto dopo essere tornato da Los Angeles nel 2019, dove sono stato per qualche tempo e dove penso di essere maturato sia artisticamente che come uomo.
Il writing in questi trent’anni è ovviamente cambiato parecchio. Per quanto io stesso abbia iniziato quando già era fenomeno quasi globale, si trattava pur sempre di un movimento ancora di nicchia o comunque per pochi. Oggi è diventato a tutti gli effetti intrattenimento su larga scala dove la pazienza e il sacrificio per arrivare alla qualità non sono più contemplati: su questo i social media hanno influito parecchio e non sempre positivamente.
Non amo molto questo scenario usa e getta e non sono certo possa portare a buone cose. Ma penso anche che faccia parte della naturale evoluzione della società in cui viviamo e che comunque il writing sopravviverà tranquillamente a tutti noi, riproponendosi al mondo in altre forme.
Bombing, hall of fame e pannelli: cosa hai preferito nel corso della tua carriera e soprattutto in che percentuale hai dedicato spazio a loro? Hai cercato sempre di privilegiare la qualità rispetto alla quantità oppure il ritmo produttivo è sempre stato fondamentale per te?
Senza dubbio bombing e hall sono state le mie superfici privilegiate: da una parte la visibilità in città dove volevo essere ovunque con qualità, e dall’altra una evoluzione stilistica sui muri cercando sempre nuove soluzioni visive. Penso che la qualità sia fondamentale per vincere, senza quella, con tutto il rispetto, rimani uno dei tanti. Per questa ragione il ritmo produttivo deve sempre rimanere elevato e allo stesso tempo di altissimo livello. Diversamente, tranne qualche raro caso non puoi eccellere.
Ricollegandomi alla domanda precedente, per essere un buon writer cosa è imprescindibile?
L’esperienza mi fa dire che senza tante palle, ambizione, disciplina e un po’ di sano talento non ce la fai.
TGF è la tua crew storica: mi piacerebbe fare un excursus anche sulle tue crew di appartenenza, su come sei entrato a farne parte e quali erano gli appartenenti…
Mi sono sempre considerato un purista delle crew, cioè bisogna essere davvero uniti altrimenti non ha senso farne parte. Ho iniziato da solo ma ho rapidamente capito che senza un gruppo di amici con cui crescere e proteggersi non sarebbe stata la stessa cosa.
La TGF (Tha’ Good Fellas), di cui sono uno dei fondatori, nasce così: amici, di cui alcuni neanche dipingevano, che amavano passare giornate infinite insieme e dare tutto uno per l’altro senza risparmiarsi. Successivamente le crew in cui mi sono sentito davvero partecipe sono state solo due: la TDT (The Deadly Type) in cui il mio mentore A-One mi fece entrare a fine anni ’90 e la MNP (Milano Napalm Posse), un’altra crew storica di Milano i cui componenti son sempre stati amici e dove la mia entrata verso il 2010 è stata del tutto naturale.
Qual è il tuo workflow attuale? Disegni sempre prima tutto su carta, o ti affidi a bozze ed il resto lo fai sul muro in freestyle?
Negli ultimi anni è tutto freestyle.
Molti si approcciano al writing ispirandosi o copiando: quando inizi solitamente sono cattive o buone imitazioni di artisti che ammiri. L’originalità nel writing è frutto di un processo lungo e sistematico o secondo te può anche essere il risultato di altro?
Originalità è una parola che mi incute quasi timore e da cui mi son sempre tenuto alla larga: varrebbe la pena parlarne più approfonditamente. Comunque, come ti ho detto prima, penso che per fare qualcosa di nuovo nel writing siano necessari studio e disciplina. La lunghezza di questo percorso è diversa per ognuno di noi.
Te la ricordi la sensazione di quando sfogliavi fanze come Tribe o Trap?
Magia, emozione, ansia, amore, orgoglio e felicità. Solo sensazioni belle, come del resto solo l’hip hop sa darti quando è fatto con il cuore.
Inevitabile la domanda sulla scena di Milano: “Vecchia scuola” e “Buio dentro” l’hanno descritta molto bene, riportando aneddoti, fatti e situazioni e riscoprendo nomi ormai dimenticati. Hai qualche ricordo particolare delle avventure con i tuoi soci di allora che vorresti condividere?
La scena di Milano anni ’90 penso sia ormai ampiamente riconosciuta a livello globale e sono orgoglioso di farne parte. I libri che tu citi penso siano fatti con molta attenzione, scrupolo e rispetto ma allo stesso tempo li trovo parziali: una goccia nel mare degli eventi che accadevano a Milano in quegli anni. Di ricordi poi ovviamente ne ho parecchi e tanti mi scaldano ancora il cuore: mi limito a dirti che stare insieme prima di andare a fare bombing, i preparativi, erano gli istanti che uniscono chi fa writing davvero.
Sempre riallacciandomi alla domanda precedente, come ti relazioni nei confronti dei media che trattano di questo fenomeno? Rispetto alla disinformazione che regnava qualche anno fa mi sembra che le cose siano migliorate…
Non parlerei di disinformazione quanto più di ignoranza. I media fanno il loro lavoro e lo fanno da sempre allo stesso modo, cioè a proprio vantaggio. All’inizio il writing era considerato un fenomeno di passaggio quasi adolescenziale e anche la sua descrizione era molto superficiale. Ora è trattato con più attenzione perché ci sono più interessi sia sociali che economici intorno ad esso. Solo per questa ragione, il fenomeno oggi è descritto un po’ meglio, anche se non mi farei troppe illusioni.
Una domanda che invece faccio sempre è sul termine graffiti osteggiato da molti: una questione piuttosto dibattuta e controversa, se usarlo o meno come definizione. Tu che ne pensi?
Conosco molto bene questa disputa perché ci sono cresciuto. All’inizio del mio percorso ero più integralista, ed ero molto influenzato sulla questione da Phase2 che ne era il principale sostenitore.
Oggi il mio punto di vista è più aperto e, per quanto cerchi di evitarlo, per me non è più un problema chiamarli Graffiti. Quando se ne parla trovo sia più importante la sostanza del discorso più che la sua forma.
Da qualche tempo collabori con gallerie, aderendo e sperimentando nuove tecniche e nuovi materiali. Ed anche questa è una domanda inevitabile: consideri positiva l’attenzione che alcune gallerie d’arte manifestano nei confronti di questa cultura? Il mercato dell’arte ha scoperto il suo vaso di Pandora?
Sì considero positiva questa attenzione, la trovo premiante e, se fatta con rispetto, anche stimolante. Sono anche dell’idea che sia molto ingenuo pensare che il mercato dell’arte influenzi il writing considerato che è un movimento che esiste da 50 anni e che ancora in questa intervista ci ritroviamo a parlare di wildstyle. Il writing è molto più forte di qualunque galleria o museo, non c’è storia. Piuttosto trovo inaccettabile la presenza di millantatori all’interno di questo circuito che si appropriano della cultura hip hop, i cosiddetti street artist: ecco su questo fronte penso ci sia molto da fare, perché costoro sono il vero cancro (artistico) da estirpare.
Nonostante la tua carriera più che trentennale, hai qualche ambizione particolare per il futuro? Qualche soddisfazione che ancora vorresti toglierti?
La mia ambizione è davvero molto semplice ed è quella del primo giorno di tanti anni fa quando per la prima volta presi in mano uno spray: essere il migliore.