COSA E’ DAVVERO NECESSARIO
Quindici anni fa avrei accolto la notizia di una radio hip hop h24 in Italia con assoluto entusiasmo. Credo lo avremmo fatto un po’ tutti… Oggi trovo sia giusto avere un qualcosa del genere anche in Italia, ma credo si debba pretendere, più in generale, molto, ma molto di più.
Se vi aspettate la solita polemica sulla qualità media del rap contemporaneo vi avviso subito che siete fuori strada: limiterò quel poco di analisi a questa introduzione e cercherò, parlandovi delle mie personalissime esperienze in questi ultimi anni, decisamente critici per il movimento e sfido chiunque a negarlo prove alla mano, di offrire se non risposte quantomeno percorsi alternativi per alzare il livello e soprattutto mettere un freno alla “decrescita infelice” del movimento sia per quanto riguarda l’ età media che per la generale involuzione dei contenuti. Non mi interessa fare polemica sulla Trap e sul nuovo che avanza: ne ho parlato ampiamente proprio qui su moodmagazine in tempi decisamente recenti e in modo decisamente obbiettivo, ben lontano dal voler trovare ipotetici “colpevoli”.
Innanzitutto vorrei sottolineare che per me il discorso media all’ interno del movimento è da sempre di vitale importanza: non mento se vi dico che sono stato uno dei “pionieri” alla seconda metà degli anni 90, quando via etere gli unici programmi di settore erano su Radio Deejay con Albertino, su Radio Sherwood al Nord e su Radio Onda Rossa a Roma, con l’ormai storico “East Coast West Coast” dove la domenica pomeriggio ero presente anche io in studio, dove ero quello che portava addirittura pezzi della vecchia scuola che prima di allora in Italia non erano praticamente mai stati passati in radio o quasi, in mezzo alla cornice della allora contemporanea e fiorente Golden Age che, vuoi o non vuoi, oggi rimpiangono tutti. Avevo quel ruolo all’ interno del programma perché nonostante fossi praticamente un adolescente sentivo già allora che c’ era un “buco” qui in Italia e che noi eravamo comunque “indietro” rispetto al resto del mondo; purtroppo non era una semplice sensazione e ancora oggi un divario c’ è, che ci piaccia o meno.
E la soluzione non è nel riempire i palinsesti con quella che oggi è la moda del momento che piace ai ragazzini perché in definitiva “è quello che passa il convento” senza tanti giri di parole, anche perché il messaggio è chiaro, evidentemente stereotipato e lungimirante come la vista di una talpa. Questa ovviamente non è una accusa verso la nuova iniziativa di Paola Zukar, Guercio, Fibra e tutti gli altri, anzi, possiamo dire “finalmente”? Sì, forse sì. Ma quello che un tempo sarebbe stato un grande traguardo oggi io la reputo una fase intermedia.
Tralasciando il concetto di “streaming”, su cui mi soffermerò più tardi seguendo una discussione che merita una analisi delle sfaccettature, parlando di “h24” basta dare un occhiata agli Stati Uniti per accorgersi che le radio che passano esclusivamente un genere musicale esistono da anni. Radio di nicchia evidentemente, ma parliamo di realtà che si erano già sviluppate via etere e consolidate. Provo un po’ di amarezza nel constatare che questo passaggio col rap in Italia si sia verificato solo ora. Ok, “meglio di niente”, siamo d’ accordo, ma il punto non è nemmeno questo.
SE “ANDARE AVANTI” NON COINCIDE CON “EVOLUZIONE”
Sono fermo dal 2012 col rap, ma “non escludo il ritorno”, parafrasando il maestro Califano. Le ragioni sono innumerevoli, una delle principali, se non la più importante e credo sia doveroso dirlo per onestà intellettuale, è il fattore economico. Fare rap è diventata una avventura, fare dischi ancora di più. Ma quali dischi? Quando dicevo che internet ci aveva ucciso ed era tutto finto a cominciare dai feedback, tipo 5 anni fa, ancora mi davano del complottista; ora che è tutto nero su bianco e i fatti mi danno ragione si parla di “crisi”; certo parliamo di una questione enorme che non potevamo scongiurare da qui e con i nostri mezzi, ma un po’ di furbizia prima della catastrofe avrebbe giovato a tutti. Essere padroni del business quando ancora c’ era un business indipendente sarebbe stata una gran cosa, purtroppo ha prevalso una cooperazione con major e grandi network che ha assunto i tratti di una sottomissione e i frutti li abbiamo raccolti soprattutto dal basso. Ma tornando a questa nuova radio, se avesse visto la luce con una base credo solida anche e soprattutto economicamente come quella attuale, visti gli attori in gioco, 8 o 10 anni fa sarebbe stata una salvata per chi il movimento lo porta avanti qui in Italia. E sì che i tempi erano maturi anche e soprattutto per lo streaming tanto più che il web in questi casi ammortizza i costi. Solo che ora la scena è frammentata, a voler essere eufemistici, escono prodotti di tutti i tipi, anche buoni, grazie a sforzi sempre più sovrumani, ma il livello medio specie parlando di giovani, scende; e si producono sempre meno album perché ormai viviamo un mercato di singoli e video dove il veicolo principale sono i social, a discapito dei lavori effettivi. Torno a dire che la radio h24 era forse addirittura necessaria, ma ora è… Tardi? Dipende. La “mission” è quella di promuovere la musica rap non quella di rafforzare il mercato italiano e questo non è assolutamente dovuto, ci mancherebbe. Ma in un mercato dove il rap prende sempre più piede e ora che il rap non ha davvero più nulla di “scomodo” o “controculturale” tutte le porte si sono magicamente aperte, spingere “il rap” il più possibile gioca a favore della cultura, di chi lo fa qui in Italia, anche solo meramente a livello business? Purtroppo la risposta è negativa. Tralascio il fattore culturale su cui tornerò tra poco, a livello economico anche negli Stati Uniti c’ è un enorme volume di affari dal punto di vista dell’ indotto, ma la musica ormai è stata svalutata, in larga parte per colpa della rete, a meno di zero. E non vale solo per il rap. Oggi i soldi si fanno con sneakers, merchandising, gli artisti del mainstream a livello “pop” li fanno grazie ad un airplay che passa addirittura nei centri commerciali, ma per le nuove generazioni non c’ è nulla, anche gli artisti Trap del mercato americano incassano volumi decisamente al ribasso rispetto a chi il rap lo faceva anche solo 10 anni fa e in modo decisamente sproporzionato comparato all’ hype che generano. Allora a spingere rap giocando sulla quantità in realtà non ne viene in tasca granché ai diretti interessati. E per far crescere culturalmente il movimento c’ è bisogno di ben altro e fuori dalla rete.
RESISTENZA CONTROCULTURALE, DAL BASSO
Ho scritto di essermi fermato momentaneamente col rap, ma non sono stato con le mani in mano. Avevo questo progetto del “fare” con lo spirito di un tempo, il famoso “passo indietro” di cui si riempiono la bocca ultimamente in parecchi, politici compresi, sfortunatamente questo ben raramente coincide coi fatti. Non era una questione di semplice ritorno alle jam, per quanto ce ne sia sempre più bisogno e c’ è chi si da da fare, con mezzi sempre più risicati e quindi con ambizioni sempre più ristrette, per mandare avanti anche questo discorso. Il disagio è ovunque in campo artistico, nella cultura e nello spettacolo, molte cose stanno andando letteralmente a decadere e la cultura, in barba alle balle dei politici, è sempre più svilita. E nei musei viene preservata la storia della cultura, ma la cultura si fa altrove. “Radio Resistenza” voleva essere un cappello in grado di raccogliere istanze di varia natura, da chi lavora nella musica, nel cinema, nel teatro, utilizzare la rete per creare un portale che fornisse materiale audio e video “free” e che fosse una vetrina per situazioni e mini eventi legati a manifestazioni più ampie, una sorta di “marchio” dove i rappresentanti si fanno portatori sani di temporanei spazi controculturali “strappati” a queste manifestazioni più ampie, ognuno in base ovviamente alle proprie competenze. Praticamente un modo per “dire la propria” secondo un punto di vista di resistenza controculturale, un incrocio tra un sindacato e una lobby dal basso che nei fatti propone prodotti culturali secondo una prospettiva di “vecchi” tempi decisamente migliori di quelli attuali.
Il progetto così come lo ho descritto è congelato, per ragioni di ordine pratico. Può funzionare nel medio termine, ma richiede un impegno difficilmente retribuibile nell’ immediato, anche riuscendo a percepire denaro dagli accessi al sito, con un meccanismo simile al blog di Beppe Grillo. In breve, ci ho provato con coinvolgimento concreto, ma chi ha una competenza in tempi di estreme difficoltà economiche come gli attuali è costretto a dare la precedenza a lavori che consentono di averne “pochi, maledetti e subito”, specie per la gestione tecnica del portale.
Uno dei veicoli fondamentali del portale era l’ idea del programma radiofonico “Radio Resistenza”, proprio per questo motivo non focalizzato sul rap, ma piuttosto sul Groove, raccogliendo quindi Grooves senza stare a guardare il genere musicale di provenienza; un sound movimentato in grado di risvegliare gli animi attingendo da uno spirito che affonda le sue radici appunto in “tempi migliori di questi”.
SCONFIGGERE L’ ILLUSIONE DELLA RETE, USCENDONE FUORI
Lo spirito del programma Radio Resistenza è quello di un valore culturale addirittura più grande di quello del movimento hip hop, ho passato addirittura jazz degli anni 20 e 30 in qualche raro caso, e la linea di demarcazione per quanto riguarda il rap è rigidissima, 1992, il picco culturale del movimento hip hop, a costo di escludere perfino la Golden Age che comunque gode di spazi molto ampi altrove. Ma soprattutto, dati i presupposti, non può essere rinchiuso in studio. Iniziai l’ esperienza di questa programmazione, dopo almeno 15 anni di assenza dall’ etere, circa due anni fa, con una web radio legata ad uno spazio occupato e politicamente schierata, quasi un modo per riaprire il cerchio dai tempi di Radio Onda Rossa, mentre il microfono lo divisi inizialmente con un elemento della vecchia guardia della scena romana, uno che era in crew con la buonanima di Giaime, Claudio Contini. Purtroppo, nonostante una partenza ottimale e dei buoni risultati in termini di ascolto capii subito una differenza fondamentale tra lo streaming e l’ FM e da lì le cose presero presto una piega differente: in termini di ascolto qualsiasi web radio fa ascolti nettamente più bassi di un network, ma soprattutto la fruizione passa in maniera decisamente più netta attraverso i podcast che non tramite diretta. Se questi erano i presupposti a quel punto mi convinsi di una cosa: la vera svolta era uscire fuori dallo studio, infinitamente più efficace operare in esterna per farsi conoscere e trasformare automaticamente la programmazione in un evento, un maggiore coinvolgimento degli ascoltatori e soprattutto una estrema facilità di realizzazione dello streaming fuori dallo studio: basta una connessione internet anche senza wi fi, la famosa “saponetta”. A quel punto Radio Resistenza poteva facilmente tornare ad essere qualcosa di molto vicino al progetto iniziale, quello di portare di nuovo lo spazio controculturale fuori dalla rete sfruttando la rete.
Ho avuto modo in diverse occasioni di dire quello che penso sulla rete, ma basta rileggere le righe che ho scritto per capire che in fondo essa non ha giovato affatto alla musica, o quantomeno non ha giovato agli artisti, soprattutto sul profilo economico. Il fatto di poter tecnicamente raggiungere ogni parte del mondo è di per sé un enorme vantaggio, specie se il mezzo è alla portata di tutti; ma la realtà è che se non produci beni e non vendi servizi e il frutto del tuo lavoro si trova direttamente in rete il passo verso l’ acquisizione gratuita del prodotto è immediato, da lì il disastro che conosciamo tutti. E la radio? Certo, tecnicamente posso essere ascoltato in diretta da tutto il mondo. Può capitarmi un giorno l’ ascoltatore dall’ Africa o il gruppo che per qualche miracolosa circostanza mi segue dagli Stati Uniti, ma la normalità è che a parte un feedback “ravvicinato”, e quello è lo zoccolo duro, c’ è ben poco di altro. Il mondo è quello che è, pensare di essere unici in rete è illusorio; ma ammettendo che uno lo sia per davvero, rimarrebbe una goccia d’ oro liquido nell’oceano, specie se indipendente.
UNA DIVERSA CONCEZIONE
La lezione è che operare in streaming per piccole realtà deve essere un pretesto per operare in esterna, riappropriarsi dei territori, letteralmente… Un qualcosa contro cui sta sbattendo duramente la faccia anche la politica, non a caso. Perché tornando alle evoluzioni del programma, questo tipo di ambizione mi creò problemi con la radio con cui operavo in precedenza che essendo legata a uno spazio occupato aveva la priorità della valorizzazione di esso anche per quanto riguarda il creare eventi: mi trovai a competere con una esigenza opposta alla mia; oltre a questo, divergenze politiche con la radio e con Claudio, con cui chiusi la programmazione per andare avanti da solo. A fine stagione passai dove mi trovo ora, Deliradio.it e nonostante parecchie difficoltà di tempo e organizzazione, si va avanti. Il punto è che Radio Resistenza non è un programma come gli altri, perché ha come chiaro obbiettivo quello di alzare il livello e lavorare su un pubblico maturo. Questo non significa escludere i giovani, ma dargi qualcosa di diverso, che non viene proposto da nessuna altra parte. Si parlava di Rare Grooves appunto, il grosso delle puntate è addirittura tematico, per generi o magari monografiche, e si da spazio anche a parecchie rarità italiane. Per farla breve, dietro c’ è un lavoro di ricerca enorme oltre ad un approccio in parte didascalico, ma necessario. Non avendo le necessità di un network, Radio Resistenza, nato come appuntamento settimanale, ora è a cadenza mensile o quindicinale, puntate di 120 minuti, materialmente ho difficoltà a fare di più, anche perché ovviamente la cosa non può definirsi lucrativa; c’ è di buono, oltre a questo, avere avuto la possibilità di inizare a proporre da parte mia dei dj set ovviamente di Rare Grooves in diversi contesti e posso dire di avere avuto sempre ottimi riscontri, locali piccoli o grandi, tanta o poca gente. Questo perché, sostanzialmente, oltre ai classici propongo appunto cose dimenticate o sconosciute, ma il bello è che c’ è sempre qualcuno che mi dice “ah ma questo cosa era, dove l’ ho sentito?” Ed escono fuori sigle televisive, sonorizzazioni e non solo… Ho sottolineato questo ultimo punto perché evidentemente non si tratta di b – boys o di appassionati, ma di un pubblico decisamente più generalista che tuttavia ha modo di approcciarsi a una proposta differente: i veri problemi, casomai, li ho avuti nella sensibilizzazione di gestori e proprietari di locali; ma questo la dice lunga su tante cose, a cominciare da quello di cui ha davvero bisogno anche il pubblico generalista, suoni diversi da ciò che è proposto di solito, ma soprattutto musica vera.
INVERSIONE DI TENDENZA, GIRAVOLTA
Qui arriviamo al punto fatidico di tutta la discussione, il cuore di tutta la faccenda. L’ Hip Hop ha vissuto per anni a ridosso della cultura di massa estrapolando elementi, campionando, attingendo elementi esterni per poi tradurli nella sua chiave di lettura, quella delle periferie, e la cosa ha funzionato finché si è mantenuta una integrità di fondo. Tutto il meccanismo ha iniziato a perdere colpi nel momento in cui le differenze tra Hip Hop e generalismo si sono assottigliate in modo sempre più pericoloso, ormai siamo arrivati all’ ibrido unico e difatti col rap l’ ultima tendenza è fuori dal discorso Hip Hop, è Trap. E’ un’ altra cosa. A voler fare un parallelo col passato del Groove, dovremmo tornare all’ eseperienza del Free Jazz, tenendo conto che la volontà di rompere gli schemi classici abbandonando l’ idea di seguire però un parametro più o meno minimale, cosa che invece fece Miles Davis, portò tutto il discorso in un vicolo cieco. In realtà questo parallelo potrebbe essere fatto con praticamente tutto ciò che è accaduto negli ultimi 15 anni in occidente, lo scenario è talmente lampante da lasciare davvero poco adito a dubbi. Non solo, tornando al rap e alla Trap e alle nuove tendenze c’ è stato un abbassamento dell’ età media, il discorso della “decrescita infelice” di cui sopra. Può esistere una soluzione, specie in un momento in cui nessuno ha risposte da dare? Io onestamente in larga parte credo di averla data con quello che ho scritto finora… Se il concetto di “andare avanti” porta ad una involuzione allora abbiamo il dovere di tornare indietro per evolverci, non abbiamo alternative; ora come ora, ci vorrebbe una radio hip hop h24 nello specifico, una radio che non trasmetta solo rap, piuttosto una programmazione basta sul Groove dove ci sia tutto, guardandoci orgogliosamente indietro dando ovviamente spazio anche alla contemporanea Trap, nessuno escluso. Ma quello che dovremmo tenere presente e ribadire è che Hip Hop non è solo parlare ed esporre le solite quattro discipline, non è focalizzandoci in modo ortodosso che verremo da fuori da un qualcosa che chiaramente è ancora più grande di questo discorso, perché i risvolti di quello che sta accadendo si possono ritrovare nei campi più disparati. Hip Hop è un punto di vista dalla forte identità. Il che significa che se parlo di Jazz a Radio Resistenza non ho la voglia né la pretesa di farlo col metodo del Quartetto Cetra ai tempi di “Sassofoni e Vecchie Trombette: L’ Impossibile Storia Del Jazz” in RAI nel 53, ma di farlo con la prospettiva del b – boy, senza per questo essere meno preciso o minuzioso. E’ a questo che dovremmo avere il coraggio di tornare, ribadire una identità e un punto di vista che non è quello generalista. Populismo? Forse, in parte. Ma il problema è di chi non ha confidenza con la strada e si è avvicinato all’ hip hop nel corso degli anni, magari cercando di supplire con una deriva punk che è tutt altro.
SIAMO ALLA FINE DEI TEMPI, MA PERMETTETEMI UN SUGGERIMENTO
Siamo di fronte a un problema di deserto culturale, più che pensiero unico è totale assenza di orizzonti. O un unico orizzonte tra una duna e l’ altra. Credo che un futuro, gettando lo sguardo fuori dal discorso radiofonico e portandolo direttamente al fare musica, sia ancora possibile tornando alla musica vera, se ne sente la mancanza; il rap può farcela, ma serve un impegno di una certa caratura, manca il livello superiore. I Roots, a parte gli ultimi lavori dove si sente la perdita della bussola, hanno dato un esempio straordinario con il loro percorso musicale, ma a voler tornare ancora più indietro gli Stetsasonic, ancora sostenibili più che mai come modello… Il crossover ha dato pochi frutti e troppo trasversali, a parte perle preziosissime, ma del tutto estemporanee come Mash Out Posse. Potremmo fare di più, con intelligenza, schivando i progetti ruffiani e gli episodi una tantum, cercando la bellezza dei gruppi di un tempo, collettivi dove ognuno ha un suo ruolo, di gruppi di emcees che parlano uno sull’ altro ne abbiamo avuti forse anche troppi, forse quello che ci ha fregato è stata proprio la sovrabbondanza di voci. Ormai credo sia proprio così, oggi ci troviamo a una estrema molteplicità di punti di vista che cozzano l’ uno con l’ altro e non si viaggia in nessuna direzione, perché alla fine della fiera i valori di riferimento non sono gli stessi per tutti all’ interno del movimento. Perché poi, in fondo, chi può davvero ritenersi una guida, oggi? I grandi maestri della vecchia scuola, la cui voce è lì, nella Zulu Nation e nei “parties” che col loro spirito di una volta rappresentano un porto sicuro, ma quindi non una nave in grado di traghettarci? Nel caro vecchio rap legato alla Nation Of Islam, dove la voce di Chuck D lotta con un presente di decadimento per preservare la propria integrità spirituale e morale? O in quella di Cube dove c’ è una volontà di ribadire una credibilità a 360 gradi dal club al cinema e alla strada senza dimenticare la moschea? In quel 5 Percentismo dove i punti di vista sono così distanti al limite della contraddizione, da Grand Puba a Raekwon passando per Busta Rhymes? O in Dr. Dre, che da solo con la sua presenza è lì, inamovibile, campione di tutte le ere ancora attivo, mausoleo e monumento della Golden Age, che non ha bisogno di parlare poiché basta la sua presenza, ma che appunto non parla? Oppure in quello che ha avuto tutto, Jay Z, accanto alla sua “pupa da sogno” Beyoncé, che ride beffardo e dice “ho vinto io perché sono diventato sistema”? In Cam’Ron, quello che è rimasto sempre lo stesso e continua a fare la sua cosa esattamente come a metà 00 perché convinto che la vera voce del contemporaneo sia ancora lui e oltre quella soglia non si sia potuti andare? In Immortal Technique, quello che è inattaccabile da tutti i punti di vista, ma che non può rappresentare altro che se stesso? O, infine, nei ragazzi della Trap più feroce, il Drill, che urlano “andate affanculo tutti, per noi conta solo la nostra piazza di spaccio visto che per noi non è rimasto più niente”? Forse non è questa la sede o il momento per stabilirlo. Ma soprattutto dovremmo tutti tenere presente che questa non è una battle di freestyle e nemmeno un gioco a premi, non c’ è e non ci sarà nessun vincitore stavolta.