Con Guernica, Pretty Riky (Smooke Out) e The Musher firmano un lavoro potente, viscerale, che affonda le mani nel disagio contemporaneo e ne restituisce una visione artistica densa di tensione e poesia. Ispirandosi all’omonimo capolavoro di Picasso, i due artisti torinesi danno vita a un album che non cerca risposte, ma domande scomode, che non consola, ma costringe a guardare — e a sentire.
Abbiamo parlato con loro per farci raccontare com’è nato questo progetto: un viaggio sonoro fatto di rovine, verità spezzate e collaborazioni profonde, dove la musica non accompagna il testo, ma lo mette in crisi. Ne è venuta fuori una conversazione autentica, ruvida e intensa, proprio come il disco.
Guernica è un titolo che evoca immagini forti e significative. Cosa rappresenta per voi questo nome e come si riflette nel contenuto dell’album?
Guernica per noi non è solo un titolo, è una dichiarazione di intenti. È il nome di una ferita collettiva, ma anche di un’opera che ha saputo trasformare l’orrore in linguaggio universale.
Ci siamo ispirati a quel tipo di urgenza: non volevamo raccontare il dolore per esibirlo, ma per scomporlo, guardarlo in faccia e provare a ridargli un senso. Il disco è pieno di immagini spezzate, di frammenti emotivi, di ossa narrative sparse da ricomporre. Proprio come il quadro di Picasso.
Il nome Guernica è arrivato quasi alla fine: Enea, membro di Smooke Out, ha messo un cappello perfetto su un corpo già costruito: caotico, viscerale, disturbante, ma profondamente umano.
Rappresenta il nostro modo di stare al mondo in questo tempo: testimoni di una guerra invisibile fatta di input, informazioni, ruoli imposti e silenzi strategici.
Nel disco non c’è una morale, ma c’è una presa di posizione: quella di chi sceglie di non voltarsi dall’altra parte.
Il vostro stile musicale è noto per la sua originalità. Come descrivereste l’evoluzione del vostro sound in questo nuovo progetto rispetto ai lavori precedenti?
In Guernica il nostro sound non è evoluto — è stato smontato e ricostruito da zero, con lo stesso amore con cui si studia il relitto di una nave affondata.
Rispetto ai lavori precedenti, qui c’è meno nostalgia e più urgenza. Abbiamo lasciato andare certe formule, certi richiami old school che erano comodi ma anche prevedibili. Abbiamo tagliato il cordone con le nostre abitudini per arrivare a qualcosa di più sincero.
Il suono in Guernica è nervoso, minimale, a tratti dissonante. C’è meno “musica” in senso tradizionale, e più atmosfera. È come se il beat non volesse accompagnare il testo, ma metterlo in crisi.
Abbiamo lavorato con The Musher alle produzioni e con l’apporto di Pietro Pagliana negli arrangiamenti dei brani. Questa coerenza ha permesso al suono di avere un’identità forte, ma mai statica. Ogni brano sembra appartenere allo stesso mondo, ma con una temperatura diversa.
È un’evoluzione che non cerca l’effetto né l’impatto. Non è pensata per piacere subito, è pensata per restare dentro — magari anche controvoglia.
Le vostre liriche spesso trattano temi sociali e personali. Qual è il messaggio principale che sperate di comunicare ai vostri ascoltatori con questo album?
Il messaggio principale di Guernica è che siamo tutti sotto le bombe, ma non tutti ce ne accorgiamo.
L’album non pretende di insegnare nulla, ma vuole far sentire che c’è una guerra silenziosa in atto: tra ciò che siamo e ciò che dobbiamo sembrare, tra il bombardamento costante di stimoli e il bisogno di silenzio, tra la morte interna e il desiderio di rinascita.
Parliamo di noi, ma solo per aprire spazi in cui chi ascolta possa riconoscersi. Non abbiamo verità da offrire, ma domande da lasciare in sospeso.
Se c’è un messaggio, è questo: anche quando sembra tutto rotto, anche quando ti senti solo macerie, qualcosa può ancora nascere da lì. Ma devi avere il coraggio di guardare. E di ascoltare.
Collaborare con altri artisti può arricchire un progetto. Ci sono state collaborazioni significative in Guernica che hanno influenzato il risultato finale?
Sì, in Guernica le collaborazioni non sono state un “contorno”: sono parte integrante del piatto, hanno influenzato l’impasto emotivo e sonoro del disco in maniera profonda. Abbiamo chiamato artisti che stimiamo non per “fare numero”, ma perché potevano dare un taglio autentico a ciò che volevamo raccontare.
Le melodiche del Narconauta in Uomo Vitruviano hanno aggiunto una dimensione quasi eterea al pezzo, come una carezza nel mezzo della tensione. La sua voce sembra fluttuare tra i versi, amplificando il contrasto tra il caos e il bisogno di armonia.
LagLyon ha portato un’apertura sincera e malinconica a La noia, con un approccio vocale che mette a nudo la stanchezza emotiva senza mai diventare patetico. La sua presenza ha dato profondità a un brano che parla di stagnazione, ma in modo vivo, non morto.
Le liriche affilate di Pierkinson aka Zoro in Le views sono state la lama giusta per un brano che attacca l’ipocrisia della visibilità a ogni costo. Il suo tono è sarcastico, diretto, preciso: il contraltare perfetto per un pezzo sul vuoto che si maschera da successo.
Tres Deca in Fanghiglia ha portato una visione cruda, reale, che non si piange addosso ma ti sbatte in faccia il degrado come fosse un dovere civile. Il suo stile asciutto, quasi documentaristico, ha reso il pezzo un frammento di verità senza sconti.
Enea, come sempre, ha messo dentro versi densi e necessari in La noia e Uomo Vitruviano. Le sue rime sono il punto di contatto tra il personale e il collettivo, tra la memoria e il presente, tra ciò che cade e ciò che si salva.
E infine Cabras, in Fanghiglia, ci ha regalato una testimonianza diretta, viva, non filtrata. Non è un rapper, è una voce reale, una persona che ha vissuto ciò di cui parliamo, e la sua presenza ha dato carne a parole che altrimenti sarebbero rimaste concetti.
Queste collaborazioni non hanno “colorato” il disco: lo hanno scavato più a fondo. E ognuna, a modo suo, è un colpo di scalpello sulla stessa scultura.
La scena hip hop italiana sta vivendo un periodo di grande fermento. Come vedete il vostro ruolo in questo panorama e quale impatto sperate di avere?
L’hip hop in Italia è arrivato come uno tsunami: ha travolto tutto, ma ha lasciato poca conoscenza vera dietro di sé. In tanti lo fanno, in pochi lo capiscono.
Da quando le label hanno fiutato che il rap era il nuovo fast food perfetto, facile da impacchettare, economico da produrre, immediato da vendere, l’hip hop è diventato il nuovo pop. Ma questo teatrino non può reggere a lungo.
L’hip hop si impara ascoltando, studiando, vivendo. E piano piano la scrematura arriverà: resteranno in piedi quelli che hanno qualcosa da dire, non quelli costruiti in studio come bibite zuccherate.
Il nostro ruolo, se c’è, è questo: stare al nostro posto, fare musica sincera e farla bene. Non ci interessa il trend. Ci interessa lasciare tracce.
Oltre alla musica, siete noti per il vostro impegno in altre forme d’arte. Come integrate queste passioni nel vostro lavoro musicale?
In realtà non facciamo distinzione tra le cose che ci muovono: che sia una strofa, un frame video, un’installazione mentale o una foto storta, il processo creativo parte sempre dallo stesso punto — un’urgenza che ci abita.
Nel lavoro musicale queste passioni non si “aggiungono”, ci abitano già. Una barra può nascere da una suggestione visiva. Una scelta sonora può essere influenzata da un quadro, da un film dimenticato, da un sogno che sembrava performance art.
Non si tratta di “integrare le arti”, ma di vivere dentro un’estetica contaminata. Ci capita di progettare grafiche come fossero manifesti di un movimento inesistente. Di scrivere testi pensando a sequenze teatrali. Di trattare ogni traccia come una scena.
Poi certo, non diciamo tutto: ci piace l’idea che chi ascolta senta che c’è altro, ma non capisca subito dove guardare. E magari voglia scavare.
Il processo creativo può essere influenzato da molti fattori. Ci sono stati eventi o esperienze personali che hanno avuto un impatto diretto sulla realizzazione di Guernica?
Sì, ci sono stati eventi personali che hanno inciso profondamente. Ma non nel senso classico del “ho vissuto una cosa, allora ne ho scritto”.
È stato più un lento infiltrarsi: alcune esperienze ti sedimentano dentro e cominciano a scrivere al posto tuo, senza chiederti il permesso.
Guernica non è un diario, ma nemmeno un’astrazione. È un distillato: quello che resta quando il vissuto passa attraverso il filtro della consapevolezza artistica.
Chi ascolta con attenzione li riconosce, quei momenti. Non serve che li raccontiamo qui. Il disco parla meglio di noi.