Yamba è fuori con il suo album d’esordio Ready, disponibile dal 4 aprile per Payback Records. Dopo i singoli “PTSD” e “More Love”, il rapper romano pubblica il suo primo progetto ufficiale: un disco diretto, personale, che racconta senza filtri il percorso di chi ha deciso di prendersi tutto sul serio. Ready è un modo di stare al mondo prima ancora che un titolo: significa esserci, farsi trovare pronti, affrontare quello che arriva con testa e cuore. Il suono è ispirato al rap classico e alle vibrazioni dei primi anni 2000, ma con lo sguardo sempre rivolto al presente. In questo viaggio, Yamba si fa accompagnare da una squadra d’eccezione: alle produzioni ci sono Depha Beat, Murad, GG, OTALAY e Foot De Papera, mentre tra le collaborazioni spiccano nomi come DJ Shocca, Ensi, Inoki, Vettosi, Black Damo, Kira e Sosa Priority. Abbiamo parlato con lui di come nasce un disco così, tra studio, strada e voglia di portare avanti una visione autentica della musica e della propria città
Il 4 aprile è uscito il tuo primo album ufficiale, Ready, che sembra rappresentare molto più di un semplice disco. Ci racconti il concept e cosa significa per te questo lavoro?
Guarda, Ready è il mio primo album di debutto e abbiamo deciso di attribuirgli un peso che va oltre il semplice disco. È il risultato di un lungo processo: ho iniziato a lavorarci nel 2023, quindi parliamo di un paio d’anni intensi. Per me, Ready non è solo un progetto musicale, ma una mentalità. Il titolo significa “essere pronti”, nel senso più ampio: pronti a cogliere le opportunità, ma anche ad affrontare le difficoltà. È un album autobiografico, racchiude episodi della mia vita, quindi è molto personale. Essere ready è diventato un mantra, un modo di vivere. È un consiglio che do a me stesso e a chi mi sta vicino.
Infatti è un album che celebra la resilienza, la forza di rimanere in piedi. Quali sono i tuoi principali punti di riferimento, nella vita e nella musica?
La mia principale fonte d’ispirazione è la vita stessa, la mia quotidianità. Può sembrare banale, ma tutto parte da quello che vivo ogni giorno. Oltre a questo, sicuramente la cultura in generale, soprattutto ultimamente sto riscoprendo molta musica del passato. Mi ispirano artisti iconici, non solo legati all’hip hop. Da Jay-Z, che rappresenta una figura centrale nella cultura rap, fino a Jim Morrison. Sono attratto da quei personaggi che vanno oltre gli schemi, che rappresentano un certo tipo di rottura, di controtendenza. Il disco ha un sound che richiama molto gli anni 2000, ma tutto è riletto in chiave moderna, con uno sguardo rivolto al presente.
Nel disco troviamo anche nomi importanti della scena italiana come Ensi, Inoki, DJ Shocca. Come sono nate queste collaborazioni?
Sono arrivate in modo naturale, man mano che il progetto prendeva forma. Sentendo i pezzi, ho capito che avevano un’impronta più hip hop che trap, sia per sound che per tematiche. Con Inoki è nato un bel rapporto, con Ensi ci siamo conosciuti a Roma e si è subito mostrato molto preso bene. DJ Shocca lavora spesso con Inoki, quindi da lì è nata anche quella connessione. Per me queste collaborazioni aggiungono uno spessore culturale non solo legato ai numeri.
Sei cresciuto a Roma, in una zona periferica. Quanto ha influito Roma, e la sua periferia, nella tua visione del mondo e nello stile musicale?
Tantissimo. Chiaramente all’inizio è tutto molto ispirazionale, finché non comincia a complicarti la vita. Quando ti ritrovi a fare i conti con la precarietà, con certe difficoltà concrete, cambia tutto. Io vengo da un quartiere di periferia, la Cecchignola, non è certo una zona centrale di Roma, è un’area dove si respira una certa instabilità, una quotidianità fatta anche di mancanze. Per fortuna sono sempre stato una persona curiosa, con una forte passione per la cultura. La strada mi ha dato tanto, ma anche la scuola, per dire, ha avuto un ruolo. Ho respirato cultura da entrambi i mondi, e la musica è stata il ponte tra queste due realtà. È proprio grazie a questo che sono riuscito a uscire da certe situazioni e, passo dopo passo, a costruirmi un percorso — che oggi può essere considerato una carriera, un lavoro vero e proprio.
Roma, negli anni 2000, era una città molto attiva sul fronte del rap, con tanti nomi importanti della scena. Oggi, secondo te, com’è cambiata la scena rap romana? Come la vedi adesso?
Oggi, invece, ti dico, la vedo in modo diverso. Nel mio disco ho voluto inserire un paio di ragazzi che secondo me meritano tantissimo: Kira e Sosa Priority che lavorano con Depha che ha prodotto tre quarti dell’album, praticamente. Per me Depha è come un papà artistico: mi ha cresciuto. Sono anni che lavoro nel suo studio. Ora lui ha i suoi progetti, i suoi business, e io i miei, però continuiamo a collaborare a stretto contatto. È stato proprio lui a spingermi a coinvolgere persone che rappresentano Roma in modo più giovane, più fresco.
Io mi sento un po’ un portavoce sia della nuova scuola che di quella vecchia — sto nel mezzo, diciamo. A volte mi ritrovo a fare da ponte, da collante, tra realtà diverse: ti faccio un esempio, tra i Colle der Fomento e ragazzi emergenti come Sosa Priority o Kira.
Secondo me Roma oggi ha tanto da dire. Magari mancano ancora le strutture giuste per affrontare certi percorsi, io ho un collettivo, Junior Broda, con cui lavoro e che pullula di artisti forti, ho inserito anche Black Damo che è mio fratello di sangue. Roma sforna talenti, su questo non ci piove.
Il problema è che qui non è ancora avvenuto fino in fondo un vero ricambio generazionale, come invece è successo a Milano, dove si sono passati il testimone. Qui la vecchia guardia è ancora molto legata a un certo tipo di mentalità underground, che a volte rende più difficile creare connessioni o collaborazioni.
Io, per come vivo la musica, riesco a fare da tramite: frequento tanto i centri sociali quanto i club. Sto in mezzo, e cerco di portare avanti un discorso che tenga insieme tutte queste anime. Anche se è complicato, perché Roma è una città dispersiva. E poi ci sono 200 mila rapper, 200 mila artisti… non è facile emergere.
Il disco esce per Payback Records, etichetta indipendente. Cosa ha significato per te firmare con loro in questa fase della tua carriera?
Con Payback mi sono sentito libero, davvero. Nicolas Egreen è una figura di riferimento, e con loro ho potuto curare la direzione artistica del progetto. È un’etichetta che valorizza l’attitudine e l’identità dell’artista, non solo i numeri. In questo momento storico, dove tutto è fast food musicale, lavorare con una realtà indipendente è più stimolante.
Parlando delle produzioni: il disco è vario, con diversi produttori: Depha Beat, Murad, GG, OTALAY e Foot De Papera. Come hai scelto chi coinvolgere per ogni traccia? Ti sei fatto guidare dalle strumentali o avevi già le idee chiare?
In realtà guarda, spesso io scrivo anche senza avere ancora un beat. Mi capita di appuntare delle idee, delle frasi, dei concetti — magari anche solo un titolo, una suggestione. Per esempio, il pezzo con Ensi è nato così: avevo scritto qualcosa su un foglio, quasi come un tag, e da lì è venuta fuori l’idea per la traccia. Quindi, generalmente, arrivo in studio con degli appunti e poi lavoro insieme al produttore. Con Depha, ad esempio, abbiamo costruito gran parte del disco insieme. In altri brani mi ha aiutato Murad, e comunque dietro c’è un team di producer molto forte: da Depha a Mojo, che tra l’altro produce anche per Capo Plaza. È una figura con cui mi sento spesso. Diciamo che alcune tracce partono proprio da un mio input scritto, che poi sviluppiamo in studio, altre invece nascono direttamente dal beat. Anche se è più raro, a volte sento una base che mi colpisce subito — come l’intro, dove il beat cresceva in modo particolare — e ci scrivo sopra direttamente. Ma più spesso, tutto parte da spunti sparsi che ho sul telefono o su carta.
Il tuo sound ha radici nel rap classico e nelle vibes dei primi anni 2000. Che cosa ti affascina di quelle sonorità/periodo? Le vedi come una forma di ritorno alle origini o un modo per distinguerti?
È un modo per distinguermi ma è anche un modo per essere fedele alla mia poetica e a certe dinamiche, diciamo così. Nella mia poetica ho cercato — tra virgolette — di fare un passo indietro in un mare di barche tutte un po’ senza bussola. Ho deciso di guardare le cose da una prospettiva più distaccata, più lucida. Mi sono reso conto che molti dei sound che ho proposto in passato, per quanto fossero forti e potenti, magari lasciavano meno il segno rispetto a un approccio più introspettivo, anche se più classico. E questo tipo di sound oggi mi permette di esprimere di più, che è quello di cui sento davvero il bisogno in questa fase della mia vita. Sono uno che spesso lavora molto in freestyle, entro in studio e registro al volo. Ma anche per questo ho sentito l’urgenza di dire delle cose precise, e quindi ho scelto un sound che potesse essere una porta aperta per comunicare, più che per stare dentro a un genere specifico. Certo, mi piace l’hip hop e lo rispetto — ma è più un modo per distinguermi che per dire sono un portavoce dell’hip hop – infatti tanti mi hanno supportato anche molte colonne del rap italiano — ma io sento di dover seguire una mia linea. Per me l’espressione personale viene prima di tutto il resto.
Hai già in mente la direzione da prendere dopo Ready?
Sto già lavorando su un mixtape. E sto collaborando anche con altri artisti underground che secondo me meritano visibilità.
Ultima domanda: il titolo Ready è molto diretto. Ma c’è stato un momento in cui ti sei chiesto se lo eri davvero?
Sì, quando ho pubblicato il disco (ride, n.d.r.). È un po’ una provocazione. Il titolo è abbastanza diretto, come hai detto anche tu, perché l’idea era proprio quella: essere pronti. Non volevo dargli un tono intellettuale, non è nel mio stile. Sono una persona concreta — leggo, ascolto molta musica, scrivo — ma non mi piace complicare troppo i concetti. “Ready” è anche una cosa detta tra amici: “Stai ready? Sei pronto?” È quel modo un po’ ironico ma anche vero di dire: sei pronto ad affrontare la vita di tutti i giorni? Quindi sì, è una provocazione, ma anche un invito a prendere in mano la propria vita. Perché anche nelle difficoltà, se sei pronto, puoi trovare ispirazione, rialzarti e andare avanti. Quando ero più piccolo, avevo spesso quella sensazione: “Devo essere pronto ora, se no non riesco a fare questo passo che mi porta oltre.” È qualcosa di molto personale, ma anche concreto.
In fondo, è un consiglio che darei a chiunque: prepararsi, essere pronti — perché poi, le occasioni arrivano.