Una chiacchierata con Eleonora Pochi, nostra redattrice, che ha ideato e realizzato in Palestina il progetto “Hip Hop Smash The Wall” coinvolgendo parecchi artisti italiani e palestinesi e con un bel risultato. Il disco è caricato su Youtube e il documentario uscirà presto in rete.
Com’è nasce Hip hop smash the wall?
Sono cresciuta con la passione per l’hip hop, perché mi son ritrovata in questo movimento culturale fin da quando ero una ragazzina, parecchio ribelle. Chiaro che l’hip hop è una cosa più ampia di quello che la gente pensa. E’ uno stile di vita, un’attitudine difficile da spiegare. Conosco abbastanza bene la realtà hip hop italiana, avevo captato che c’era la carenza di ponti con realtà oltre confine, così ho pensato di proporre una connessione con una parte della scena mediorientale, che mi sembra il fulcro attuale dell’hip hop: trovi gente che rappa per strada, contest clandestini, graffiti di protesta, b-boys che ballano in strada, beatboxing sull’autobus. In Medio Oriente poi devono fare anche i conti con quella parte della società che li addita come copie degli americani. In realtà l’hip hop è un movimento internazionale, ogni paese ha ovviamente le sue peculiarità ma in fin dei conti riescono ad esprimersi in un linguaggio universale.
Come mai la Palestina?
Il mio rapporto personale con la Palestina rimanda al rapporto personale che ho con il resto delle cose, alle mie convinzioni, alle mie scelte di vita, al mio carattere. Prima di avere un rapporto con la Palestina ho rapporti con una serie di persone e amici che sono nati lì. La gente di quella terra mi ricorda la nostra gente, quella che ho incontrato nei racconti degli anziani che vissero il secondo dopoguerra. E invece quella barbara occupazione militare israeliana la vedo un po’ l’emblema dell’arroganza del mondo occidentale. Un mix d’ipocrisia e autoritarismo. Sorrido un po’ quando mi definiscono una “attivista”, perché ancora devo capire cosa si cela dietro quella parola, tanto di moda. Sono una sempliciotta, ancora ancorata alla coerenza delle cose. Sono stata nella Striscia di Gaza, mi occupo del recupero psicosociale di minori con traumi dovuti a contesti di conflitto, devo dire che il sentire alcune storie di occidentali che vanno lì esclusivamente a mettere in mostra il loro lato da “eroine buone” mi ha provata di più delle bombe. Anche mia madre andava in giro senza scarpe da bambina, nessuno si faceva le foto con lei. Ma ora per chi vuole può rilasciare autografi.
Come si è articolato il progetto?
Il progetto ha seguito volutamente una linea “freestyle”. Come un progetto ”hip hop” avrebbe potuto essere strutturato? Il senso era anche quello di sperimentare nuove possibilità di intervento, alternative a quelle proposte dagli standard attuali dettati dall’Unione Europea riguardo scambi internazionali di giovani. Onestamente, una delle cose buone che ho imparato dai libri e dall’esperienza sul campo è che proposte di socializzazione e attività troppo indotte non conducono sempre ad un risultato reale. Talvolta sono solo interventi asettici, privi di spontaneità e naturalezza.
L’altra faccia della medaglia è che tutto questo tripudio di spontaneità ha trovato anche un po’ spiazzati i ragazzi, che alla fine hanno reagito alla grande. Si sono parecchio autogestiti, scandendo il planning generale formulato a priori in attività specifiche, distribuite in base alle loro esigenze e come credevano meglio al momento. Le tre sezioni rap, graffiti e breakdance lavoravano separatamente durante il giorno, non avevamo fondi per permetterci un’ unica location, ma alla sera si ritrovavano tutti in un grande stabile, dormendo in tenda. Anche lì, la scelta di dormire in tenda tutti assieme è stata ottima. Il dormire in albergo sicuramente avrebbe giovato alle schiene di tutti, ma non sarebbe stato lo stesso. E poi ogni tanto nella vita fa bene ritornare un po’ bambini. Come potrei dimenticare Gojo che russava o i tre b-boys di Nablus (i più piccoli) che non facevano dormire nessuno!…Il risultato del progetto è stato strepitoso e tutto grazie alle energie dei ragazzi stessi. Un album di nove tracce, un documentario, tre murate meravigliose e graffiti in freestyle. Tutto in sette giorni! Un signore di lì ha fermato Gojo, il writer italiano, e gli ha chiesto se gli andava di dipingere il retro del suo furgone. Gojo l’ha fatto, mentre lui dipingeva hanno tirato fuori thè e pasticcini, ci siamo divertiti. Nei progetti dell’UE non c’è posto per questo.
Eri già in contatto con gli artisti palestinesi che sono stati coinvolti?
Con alcuni sì. Avevo fatto un campo di lavoro l’anno precedente con uno dei giovanissimi rapper del progetto, Hadi. Lui mi ha introdotto Anan Kysim, uno dei padri del rap in Cisgiordania. Inoltre avevo visto live Ace e pian piano abbiamo pensato a dar vita a questo progetto introducendo tutti gli altri. Da anni ero in contatto con il crew di bboys di Gaza, i Camp Breakerz, che purtroppo non hanno potuto partecipare fisicamente alle attività a causa del sistema di restrizioni al movimento e dei permessi di cui hanno bisogno per muoversi. Ma si è trovato un modo per collaborare a distanza, anche con Mosab, giovane writer. Inoltre avevo contatti precedenti anche con il writer Hamza, durante un’intervista fatta anni fa, rimasi colpita dalla sua presa di posizione in riguardo ai graffiti sul muro di separazione. Mi disse “E’ tetro e deve rimanere così. Brutto. Non va abbellito, non va decorato”.
Come descrivi l’ hip hop palestinese?
Di base non ha niente di diverso dalle altre comunità hip hop. C’è una buona presenza di protesta politica, ma non è solo questo. L’hip hop lì è anche un’alternativa. Un diversivo alla polarizzazione politica o alla chiusura totale. Ti aiuta a superare le barriere fisiche e sociali, appunto “sfonda il muro”. Il dedicarti ad una disciplina dell’hip hop ti distoglie dal continuo pensiero che la realtà quotidiana di laggiù di sbatte in faccia: che sei nato e vivi sotto una delle più brutali occupazioni militari. Che non significa infischiarsene, qualche volta significa cercare di calibrare le emozioni per non andare fuori di testa.
Cosa ti ha lasciato questa esperienza e quali sono, se ci sono, iniziative future?
E’ un progetto autofinanziato, Assopace Palestina lo ha supportato facendo il suo meglio – essendo una associazione di volontariato – e garantendo il partenariato del Comune di Ramallah. La più grande difficoltà forse la stiamo affrontando ora, perché il progetto e’ stato concepito in due step: la prima parte in Palestina, la seconda in Italia con tutta la controparte e sono parecchi, oltre 25. Tardiamo ad avviarla perché ancora non riusciamo a raccogliere i fondi necessari.
Quest’esperienza mi ha confermato che talvolta basta molto poco per sfondare muri con un po’ d’amore e che la libertà sa volare più alto di qualsiasi muraglia di filo spinato. L’approccio è stato molto naturale, particolarmente familiare con la comunità hip hop. Ricordo che prima di ripartire i ragazzi erano tutti molto emozionati per il fatto di aver vissuto delle giornate intense, come se fossero amici da una vita. Per quanto riguarda la comunità di Ramallah, rimasi sorpresa nel vedere la gente interessata ed entusiasta fermarsi a guardare lo street show di breakdance dei ragazzi. Voglio dire, non è molto usuale per il centro di una città simile. Eppure la gente era divertita, rideva, si incuriosiva. Ci siamo anche divertiti. Ho delle scene in testa davvero “epic win”!…Invece quando siamo andati ad Hebron, quella è stata la giornata più cupa, ma era necessario andare. In quella città l’occupazione è soffocante e i bambini vanno all’asilo con vista muro e filo spinato, altro che l’albergo di Bansky. E’ una città fantasma, divisa in due settori: H1, governato dalle autorità palestinesi, ed H2, sotto il controllo dell’esercito israeliano. I palestinesi che vivono lì sono costretti a passare sui tetti per raggiungere i loro vicini. Inoltre, subiscono violenze e molestie da parte dei coloni e dei soldati.