Hip hop smash the wall: reportage dalla Palestina

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Un resoconto sulla prima fase di realizzazione di Hip Hop Smash the wall, un progetto di Assopace Palestina che mira a creare un ponte tra l’hip hop italiano e palestinese. Niente scopi di lucro, nessuna finalità di promozione economica dietro. No idoli, semplicemente esseri umani. Una grande tribù di circa quaranta persone

di Eleonora Pochi

Quando ho chiesto ai ragazzi di partecipare hanno tutti accettato senza indugio. Per tutto il team, tranne Chimp, era la loro prima volta in Palestina e quando ci siamo incontrati la mattina della partenza in aeroporto, i loro sorrisi nascondevano un po’ di preoccupazione, senza dubbio legittima. Dopo un ingresso sorprendentemente liscio, forse anche grazie ai miei boccoli biondi, al sigaro di Lucci e all’eleganza diffusa, ci siamo incamminati verso Gerusalemme. Dal tetto dell’ostello in cui abbiamo fatto sosta giusto la prima notte, prima di procedere per Ramallah, si vedeva tutta la città. Una vista che toglieva il fiato. Gerusalemme è una città strana, offre un silenzio magico, surreale, da ascoltare tra il buio, le stelle e il canto-preghiera del Muezzin, che rende più affascinante ogni cosa. Nonostante tutto.

Il giorno seguente, dopo un viaggio in autobus, siamo arrivati a Ramallah. Dopo le presentazioni di rito con il resto del team palestinese, Xedo e Chimp propongono un meeting conoscitivo in cerchio. Loro hanno partecipato a diversi scambi culturali nell’ambito del Bboying, mi spiegano l’importanza di momenti del genere; cose da cui io, fin da bambina, in genere sono sempre scappata. Un po’ per la vergogna, un po’ perché sono un animale selvatico poco incline a situazioni di socialità indotta. Ma loro invece se la cavano molto bene. Cominciano a ballare ed incoraggiare gli altri Bboy ad entrare nel cerchio.

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I giorni scorrono veloci. Di notte si dorme poco, quasi niente. Uno, perché c’erano ragazzini piccoli che tenevano svegli tutti gli ospiti della palestra sistemati nelle tende; Due, perché c’era Gojo che “russava come una motozappa” a detta di qualcuno. Italiani e palestinesi mi hanno pregato di trovare una soluzione per Gojo, che alla fine si è spontaneamente sistemato nella toilette con un materassino. Mi svegliavo presto per preparare le colazioni, per questo alcuni ragazzi palestinesi mi chiamavano scherzosamente “mom”, mentre gli italiani ogni mattina mi buttavano “affettuosamente” occhiate di rancore per la situazione un tantino disagiata, ma neanche troppo considerando il contesto generale, in cui si erano cacciati, su mio invito.

Sul versante del Bboying sono stati capaci di creare una coreografia in tre giorni e di rifarne un’altra sui passi di un pezzo dei Bboy di Gaza per poi riproporla tutti assieme (collegati da una maxischermo) in uno show finale. Telemare, calabrese doc, è da subito il beniamino dei ragazzi palestinesi. Era divertentissimo osservare come lui, che parlava in calabrese, riuscisse a comunicare e farsi capire dai ragazzi arabi. Tutti che urlavano durante il giorno “Talemarehhhh”. Xedo era visto come il papà, data la sua attitudine paterna e pacata. Chimp è stata dietro anche alla produzione del documentario affiancando Tom, un videomaker francese. Il filmato sarà disponibile a fine inverno grazie alla Baburka Production. Il gruppo ha di sua iniziativa ideato e realizzato uno street show nelle vie principali di Ramallah. Decine di persone si sono fermate a guardarli con entusiasmo, per qualche momento sembrava che l’hip hop da quelle parti fosse un qualche cosa di accettato e ben visto. Alcuni bambini si sono cimentati in alcuni passi di breakdance, scoprendosi ballerini provetti e divertendo molto i loro genitori.

Parliamo dei rapper.

Si sa che i rapper, a differenza dei Bboys, hanno palesemente un approccio meno “festaiolo”. Più riservato, devono studiarsi, riflettere, capire prima di aprirsi. Il “papà” della sezione rap era Anan, uno dei primi MC e producer che hanno cominciato a fare rap in Palestina, che ora porta avanti buona parte dell’hip hop palestinese. Ha aperto uno studio di registrazione, un’etichetta indipendente e un’agenzia di produzione video. L’album è stato registrato nello studio casalingo di Khaled, poco distante dal checkpoint di Qualandia. Erano tutti tappati in una casa a scrivere, sembrava quasi un bellissimo, meraviglioso…manicomio! Almeno per me, che non sono abituata ad ascoltare un beat per oltre tre ore. Se ci penso ancora mi gira nella testa. E’ uno di quelli prodotti da Ice One, anche lui nel progetto come Producer e DJ, che è diventato la base della possetrack dell’album. E poi guai a dare una sbirciata al quaderno di qualcuno di loro. Palestinesi e italiani mi cacciavano educatamente, dicendo che “il quaderno di un rapper è una roba s-e-g-r-e-t-a”. Durante l’ultima serata, Coez – che sotto sotto mantiene un’attitudine hip hop, anche con le camicette a fiori – propone di formare tutti insieme un grande cerchio, per scambiarci le impressioni sull’esperienza vissuta insieme. “Nonostante apparteniamo a due diverse culture – dice Ameer, un bboy di Nablus – siamo una sola famiglia. Niente ci distingue. L’hip hop è capace di fare questo e a me sembra di conoscervi da anni”. In realtà c’era anche un secondo “papà”, Kento, che, ad esempio, si è fatto avanti con la sua postura da king indiscusso, per l’interrogatorio all’aeroporto di Tel Aviv, al ritorno in Italia. E poi c’era Prisma, che durante il viaggio ci ha raccontato qualche cosa della realtà indiana. Spiritualmente molto vicino alla situazione palestinese.

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E i writer?

Gojo si è preso sotto la sua ala Ahmad, un ragazzetto proveniente da un campo profughi vicino Nablus. In un paio di giorni, già aveva migliorato di molto la sua tecnica. Gojo è un mio caro amico, è una di quelle personalità che rispecchiano a pennello la creatività di un artista. Davvero pazzo, ma assolutamente geniale. Ed è anche grazie a lui che sono riuscita a muovere i primi passi per portare avanti questo progetto. L’altro writer di Ramallah è Hamza, un altro completamente folle. E poi c’è Mosab, dalla Striscia di Gaza, giovane sognatore e amante dei fumetti.

Ero un pomeriggio con Gojo, in una delle strade di Ramallah. Mentre dipingeva si avvicina un ragazzo che ci chiede se era possibile disegnare qualche cosa sul retro del suo camion. Gojo accetta subito, ci avviciniamo e nel giro di un minuto ci ritroviamo tazze di thè e acqua in abbondanza. I palestinesi sono un popolo estremamente ospitale. Porta anche suo figlio fuori, che purtroppo non può camminare. Adam. Quando Gojo gli regala una bomboletta di spray, notiamo la sua simpatica soddisfazione.

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Una giornata nel lato oscuro dell’Occupazione Israeliana

Infine andiamo ad Hebron per una giornata. Ho ritenuto che osservare la realtà di quella città, emblema dell’occupazione perché in essa ci sono insediamenti israeliani, poteva essere un punto focale per la buona riuscita del progetto, nel complesso. Incontriamo Youth Against Settlements, un’associazione di giovani attivisti che filmano le continue violazioni di diritti subite dai palestinesi che risiedono nella città. La via principale, Shuahada Street, è stata chiusa ai palestinesi. Era il principale punto della vita commerciale, nonché il principale passaggio per i siti della città. Anche l’entrata al cimitero, situata sulla via, è stata vietata al transito dei palestinesi. Ci sono cecchini sui tetti, soldati in ogni angolo e un checkpoint all’ingresso della via. Io, Gojo e un’attivista YAS ci addentriamo. L’attivista YAS, palestinese, viene bloccato e obbligato a tornare indietro. Noi italiani proseguiamo dopo che i soldati hanno controllato i nostri passaporti. Camminare per Shuhada Street lascia una sensazione di vuoto molto difficile da descrivere. Anche i sassolini che calpestavamo facevano un rumore per noi assordante. File di serrande chiuse, di botteghe palestinesi sequestrate senza motivo e sigillate. Ad un certo punto un soldato urla e punta il mitra addosso ad una donna palestinese con una bambina, che stavano camminando per una via limitrofe, adiacente il cimitero e in direzione di Shuahada Street. I militari le urlano di andarsene. In quella via, un passaporto cambia tutto. Ti salva la vita. E non è neanche troppo sicuro.

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E adesso?

Una volta tornati a casa, quasi tutti gli italiani del team mi dicono più o meno scherzosamente “non mi cercare più!”. Sono esausti ma profondamente coinvolti, nel senso buono. Si abbracciano tutti e si ripropongono di continuare a vedersi. Ora il prossimo step di “Hip hop smash the wall” prevede una seconda fase di incontro in Italia, con tutti i palestinesi, compresi quelli di Gaza che a causa delle restrizioni imposte dalle autorità israeliane, non sono riusciti a raggiungere Ramallah. Si sta portando avanti una raccolta fondi online, soprattutto nell’ambito hip hop, si chiede supporto. Ce n’è bisogno. Per chi vive a Roma o Grosseto, si sta portando avanti anche una raccolta abiti hip hop, una bella idea di Xedo e Lucci, che dovremmo spedire entro il prossimo gennaio. Fatevi avanti. Una delegazione di trenta palestinesi che fanno hip hop sarà in Italia nell’autunno 2015, ognuno può contribuire e rendersi parte attiva. 

Per info www.assopacepalestina.it – spreadhiphop@libero.it

Pagina Facebook del progetto: https://www.facebook.com/hiphopsmashthewall?fref=ts

Twitter: @hiphopsmashthewall

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