Back in the days: Intervista a Dargen D’Amico

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Il rap di Dargen D’Amico è poesia, creazione dal mondo-del mondo. E poco importa che l’hip hop sia un genere musicale poco incline alla glorificazione letteraria, qui siamo di fronte ad un talento purissimo, e anche la stampa non di settore ha dovuto trarne le sue conclusioni. Il rap è parola che si fa ritmo, e quando si eleva al di sopra dell’infimo e del mediocre diventa un medium dalle combinazioni praticamente infinite. Dargen questo ha fatto, e questo ci auguriamo continui a fare per almeno altri dieci Di vizi di forma virtù. Laddove “Musica senza musicisti” era più che altro una geniale e personalissima rilettura dei classici topoi dell’Hip Hop, Di vizi di forma virtù è un magma di suggestioni sognanti, è un caleidoscopio espressionista di suoni ed emozioni, è la cultura pop che perde quel suo alone di frivolezza e diventa epica. L’artista non ha la soluzione a portata di mano, ha solamente un nuovo modo per metterti di fronte al problema. Questa intervista vuole essere un corollario all’ascolto del disco, per chi scrive, dopo una ponderata riflessione, il miglior disco hip hop italiano dai tempi di SxM dei Sangue Misto.

Ti aspettavi una ricezione così positiva del tuo lavoro, da “Musica senza musicisti” fino a “Di vizi di forma virtù”?
No, sinceramente no. Anche se poi dipende da cosa intendi tu per positivo.

Che la gente ascolta quello che hai da dire, e lo fa in qualche modo suo.
Credo che messa giù così qualsiasi ricezione sia positiva. Nel momento in cui recepisci le mie parole, è positivo. E’ l’ascolto il processo che finalizza davvero il disco, non il mix o il mastering.

In “Come l’Italia e San Marino” descrivi quello che dovrebbe essere il processo per scrivere un buon rap. Qual è invece il consiglio che dai a chi il rap lo deve soltanto ascoltare? Sempre in riferimento alla ricezione della tua musica.
Il rap non è una musica né omogenea né univoca. E’ difficile buttare giù una strategia d’avvicinamento. Per quel che mi riguarda vorrei che l’avvicinamento fosse graduale nell’ascolto. Ascoltare per gradi una musica che è concepita a più livelli. Chi ascolta poi finisce per arricchire il senso delle canzoni, trova sensi che io mai mi sarei immaginato. Il significato è semplice: sei più profondo di quello che sei.

E’ proprio per questo che talvolta la tua musica sembra svilupparsi più in verticale che in orizzontale?
Senza dubbio, su ogni gradino trovi una biglia colorata. Arrivato sul pianerottolo della canzone ci sono io, e quando l’ascoltatore arriva ci facciamo un match di biglie.

E se non ci arriva? Non hai paura di apparire un tantino autocompiacente? Le cose più difficili in fondo sono quelle a cui è più facile fuggire…
Non faccio una musica che può risollevare il mondo, non è obbligatorio avere la pazienza e l’attenzione per arrivare sul pianerottolo. Io non mi sono mai lamentato e spesso gioco da solo, con una sola biglia, su un solo gradino. La scala è fresca d’estate e calda d’inverno, sai, sotto ci passano le condutture del riscaldamento.

L’accostamento “rap – gioco” è interessante. In inglese il verbo “to play” significa sia giocare che suonare. Su “Al meccano” il gioco è addirittura metafora della vita. Che rapporto hai con la tua parte infantile?
Io sono la mia parte infantile. Specialmente quando recito nella mia parte, play my role.

È per questo che cambi spesso registro? Un momento piangi e l’altro ridi, come i bambini appunto?
Come la vita credo. Io poi ho accumulato molto nei primi dieci anni di vita, immagini, impressioni. Ho come un serbatoio mnemonico che mi aiuta molto nella fase di scrittura. So come la vedono i bambini.

I bambini non hanno neanche troppa paura di morire…
Per fortuna quella fase l’ho passata. Ora ho paura di vivere.

Quindi il “fare finta che domani muori” va inteso in un’accezione positiva? La musica come un istantaneo distacco dalla vita?
Non proprio. Il “fare finta che domani muori” riguarda il modo di metter giù le cose che ha chi fa rap, quel caricare i testi di significati epici, come se sulle spalle di chi fa rap si giocasse il destino del mondo. Comunque tutto sta nel come muori, la sofferenza, nella vita come nella morte, è da evitare, offusca la lucidità.

E per “fare di vizi di forma virtù”, cosa intendi invece?
“Fare di vizi di forma virtù” significa trovare il fiore nel fango, parafrasando De Andrè, significa condividere il pane con un assassino, sempre parafrasando De Andrè. Significa rivalutare quella volta in cui in preda alle emozioni hai confessato tutte le tue debolezze, mettendo tutto in un quadro.

Hai appena citato De Andrè, e la domanda sorge spontanea, qual è il tuo rapporto con la canzone italiana d’autore, nell’album ci sono parecchi rimandi?
Non è possibile rispondere. Ti direi ottimo, però definire i rapporti tra un uomo e un genere musicale è una cosa da fantascienza. Di sicuro c’è che ci sono cresciuto, nelle fasi dalla neonatale alla pre-adolescenziale ho ascoltato praticamente solo quello. Poi alle medie ho abbracciato anche il rap. E nel periodo intorno ai vent’anni ho abbracciato anche l’elettronica, inizialmente perchè non c’erano parole, ero stanco delle parole.

E ora? Che rapporto hai con le parole?
Tra di noi non è più come una volta, è un matrimonio, ed è diventata routine.

Pensi a delle parole, poi le scrivi su di un foglio, poi le parole tornano pensiero e le sputi fuori dalla bocca. Funziona così?
Non c’è una norma, almeno per me. Io non so scrivere sempre nella stessa maniera, dipende molto anche dalla musica e dal tipo di testo. A volte ho un’idea e ci scrivo intorno un ritornello, poi quando me la sento scrivo le strofe una alla volta. Altre volte scrivo le strofe pian pianino, un po’ la prima, un po’ l’ultima, e poi il ritornello lo trovo direttamente in studio.

Qual è il pensiero principale che credi di aver veicolato con “Di vizi di forma virtù”?
Non ci ho pensato. Forse il fatto di non aver ancora capito l’importanza di saper mettere bene la punteggiatura.

In fondo anche questo è un fare di vizi di forma virtù?
Infatti, e quest’intervista ne è un sintomo.

 

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