E’ una delle migliori interviste mai apparse su MoodMagazine, forse la migliore. Il Danno del Colle Der Fomento che intervista KaosOne: tratto dal primo numero cartaceo della rivista, uscito qualche anno fa, ai tempi di “kARMA”. Ve la riproponiamo interamente perché è un articolo troppo bello per venire dimenticato. Condividetelo tutti. (La foto a sinistra è quella di DeeMo tratta dal booklet del disco, l’altra è di Stefano Pezzi)
Ho visto Kaos One per la prima volta a Bologna alla jam Tinte Forti, mi pare fosse il 1995. Di lui conoscevo “Let’s get dizzy” dei Radical Stuff e il pezzo “Don Kaos” sulla Rapadopa, un pezzo che già allora faceva da spartiacque. In quell’occasione non andai oltre il semplice saluto. Lo incontrai di nuovo dopo qualche mese, in occasione di un live dei Radical Stuff al Forte Prenestino; in quel periodo stavamo registrando “Odio Pieno” e azzardai la richiesta di un featuring sperando che la sua conoscenza con Ice, e le birre che gli avevo offerto quella sera giocassero a favore. Disse subito di si, e qualche settimana dopo me lo ritrovai ospite a casa mia. Tipo strano Kaos. Ha la voce roca che sembra una motosega sull’osso. A prima vista mette una certa inquietudine, lo sguardo impassibile che sembra sempre fissare un punto distante ed una serietà difficile da scavalcare. Per me lui era il veterano dell’old school, quello che faceva rap già da dieci anni mentre io ero solo un pischello con la chiacchiera sciolta che ne sapeva ben poco, eppure… Abbiamo passato due giorni a parlare di rap, di libri, di cinema, di fumetti e di quello che ci passava per la testa. Io tiravo fuori i miei quaderni e gli leggevo le ultime strofe scritte e lui rispondeva facendomi ascoltare una cassettina con degli inediti (fra cui la spettacolare “Marco se n’è andato..” con la base di Neffa e la voce campionata della Pausini come ritornello, e il testo che raccontava di Kaos che parlava di se stesso dopo che si era suicidato…). Avevo letto i suoi testi, lo avevo visto sul palco, aggressivo, rabbioso, simile ad un guerriero sul campo di battaglia. Ma in quei due giorni passati insieme ero riuscito ad intravedere l’altra sua faccia: quella di una persona riflessiva, educata e con un’inaspettata propensione all’umorismo e alla battuta. Un momento prima si esaltava a mille, soprattutto quando mi raccontava di qualche pezzo rap americano che gli piaceva particolarmente e mi rappava interi pezzi, il momento dopo si faceva più cupo, pensieroso, e mi diceva che era insicuro del suo rap in italiano perché aveva sempre rappato in inglese, mi diceva che non era convinto, che non era bravo a fare freestyle. Tutto questo senza mai smettere di fumare, perché è impossibile pensare a Kaos senza pensare alle sigarette che fuma. L’ho visto addormentarsi con accanto al letto un bicchiere di vodka e le sigarette e a metà della notte svegliarsi per farsi un sorso e accendersene una e poi rimettersi a dormire, in perfetto stile Bukowski. Ora ha smesso di bere, ma non ha mai smesso di accendersi una sigaretta dopo l’altra e quando lo incontro dietro qualche palco è come rivedere il fratello maggiore con cui hai sempre parlato poco, meno di quanto avresti voluto. Sono passati tanti anni e ultimamente gli ho sentito più volte ripetere la storia che il prossimo disco sarebbe stato l’ultimo, che basta, il suo tempo stava per giungere al termine. L’ho visto aspettare le tre di notte prima di salire sul palco senza battere ciglio, affrontare i peggiori impianti con la stessa carica con cui si affrontano i migliori, l’ho visto in perfetta simbiosi con Moddi e l’ho visto da solo, senza nessuno che gli facesse le doppie andare avanti fino alle fine, senza mollare mai una rima, senza perdere mai la battuta. L’ho visto dietro ai giradischi esaltarsi per i dischi che passava, e l’ho visto da una parte, con lo sguardo perso nei suoi pensieri, senza dire una parola per intere ore. Sono passati più di dieci anni dal nostro primo incontro e in questo tempo ho cambiato molto spesso idea sulle cose. Sono passato dall’esaltazione delle prime jam a un brutto scetticismo che mi ha fatto perdere molta della fiducia che avevo nel “magico” mondo dell’hip hop. Ho perso un po’ di passione e ho cominciato a trovare sempre meno motivi. Ma ogni volta che vedo Kaos su un palco mi ricordo che alcuni di questi motivi stanno ancora lì, inossidabili come se il tempo fosse un optional, mi ricordo da dove vengo, e soprattutto mi ricordo perché questa musica ancora mi scuote dentro e mi fa sentire parte di qualcosa che davvero non saprei spiegarvi meglio di così.
Come è nato il tuo nome? Hai avuto altri nomi prima?
Per le lettere! in particolare la K e la S, in quel periodo cercavo una bella tag piuttosto che un bel nome, ed ero presuntuosamente convinto che la K e la S mi venissero bene; qualche tempo fa ho rivisto una mia tag su un quaderno, risalente all’ 83, credo fossi ancora alle medie, ho sorriso nel vedere quanto erano barocchi e approssimativi quei tentativi, tuttavia li ho rivisti con una certa dose di affetto…. misto alla repulsione. Ho usato, saltuariamente in passato, altre tags, ma unicamente per provare differenti stili di lettering.
Hai cominciato come writer, molti anni fa, quando era praticamente impensabile trasformare la passione per il writing in un vero e proprio lavoro. Oggi la cosiddetta “street art” (es. Banksy, Obey e simili…) sta aprendo porte dando molte opportunità di campare con il proprio talento. Dipingi ancora? E ti piace la moderna street art?
Di recente mi è capitato di avere l’occasione di riesumare pubblicamente parte del mio passato di writer, e ne ho approfittato per cercare di chiarire che non ritengo questa mia passata attività particolarmente degna di nota. Nonostante mi sia sempre considerato un attento appassionato, ho fortunatamente realizzato in tempo di non disporre, purtroppo, del talento necessario per poter essere rilevante all’interno di questa forma espressiva, ma conservo comunque un bellissimo ricordo di quel periodo. Per quanto so di entrare in evidente contraddizione con quanto esprimo ne “Il codice”; oggi, posso solo essere felice per chi riesce a sbarcare il lunario con il frutto della propria creatività specialmente nell’ambito di questa forma d’arte che nel nostro paese ha sempre avuto molta difficoltà ad affermarsi, ma che lentamente vedo sempre più accettata. Ai tempi chi ti commissionava un lavoro voleva che tu eseguissi ciò che lui desiderava: consideravano i writers una sorta di decoratori, oggi sono felice di vedere artisti che hanno avuto accesso a famose gallerie d’arte e che vengono chiamati per esprimere unicamente il loro talento. Ovviamente resto sempre più emozionato quando vedo un Wildstyle su un treno o una hall of fame particolarmente bella, e sono felice di vedere quanto oggi il writing, e le sue numerose varianti, nonostante le tante contraddizioni e sfaccettature, si siano diffusi globalmente, tanto da rendermi quasi orgoglioso anche del modestissimo contributo che è stato il mio.
Da anni il tuo nome è associato a un visione hardcore e purista dell’hip hop, tanto che molti ti considerano un vero e proprio guerriero difensore del rap senza compromessi. Ti rivedi in questa definizione? E quanto pensi che la gente abbia frainteso di te?
Il modo in cui le persone, alle volte, possono venire influenzate anche da eventi marginali mi affascina, anche se ha senz’altro dell’inquietante. Nel finale de “L’anno del drago” c’è un dialogo in cui viene citato il “maestro Kaos”; da allora, mio malgrado, sono stato chiamato diverse volte con questo appellativo. La cosa di per se è abbastanza divertente considerando che il dialogo in questione è stato tratto da un cartone animato….. e che ho la terza media, ma è indicativo, nella misura in cui dimostra quanto poco ci vuole per condizionare l’immaginario, anche involontariamente. Non ho nulla contro i compromessi, ma oggi sembra essere la parola d’ordine in qualsiasi ambito, tanto che è oramai diventata una abitudine mentale. Per quanto mi riguarda non mi ritengo assolutamente né un purista né un ribelle, tuttavia volendo fare un’azzardata analogia, vedo il compromesso come l’avvallamento tra due picchi di una forma d’onda; mentre gli estremi, seppur distanti possono guardarsi negli occhi, il compromesso può solamente guardare entrambi da basso verso l’alto. C’è da dire anche che sotto la categoria puristi e difensori del rap spesso puoi trovare parecchia chiusura mentale e incapacità di rinnovamento ma è una critica che muovo a me stesso prima che ad altri. Fraintendimenti tanti; a volte ho l’impressione che la gente abbia più bisogno di un araldo che di un artista da seguire, ma io non ho chiesto mai a nessuno di combattere le mie battaglie, come non ho la forza di combattere quelle altrui, semplicemente faccio quello che posso come posso in ogni aspetto della mia esistenza.
Sei sempre stato al margine dei “canali ufficiali”, poco presente nelle radio, rarissimo in video e anche abbastanza schivo nei confronti di qualsiasi esposizione che non fosse quella sul palco o sul disco. È una scelta voluta quella di evitare certi ambienti o c’è qualcuno ti ha “tagliato fuori”?
Ho sempre avuto un pessimo rapporto con la radio da sempre; è davvero difficile descrivere il senso di frustrazione provato, quando si cercava disperatamente una qualsiasi traccia di black music nelle radio agli inizi degli anni 80, in un calderone di wild boys, spalline giganti, capelli cotonati, paninari, italo house ecc. Oggi le cose vanno leggermente meglio ma le persone nelle radio sono sempre le stesse, e la loro conoscenza del Rap e dell’ Hip Hop in generale non è cresciuta molto, semplicemente non hanno gli strumenti per capire la differenza tra una strofa potente e una fiacca. Per fare un esempio che persino loro potrebbero capire; è come se uno esperto di Rock, non riuscisse a trovare poi troppe differenze tra un assolo di Hendrix e uno di Dodi Battaglia. Basti pensare che l’inserto musicale della Repubblica fino a poco tempo fa nelle recensioni aveva Rap&Dance come unica voce. Oggi però il mercato internazionale impone una presenza radiofonica di rap molto massiccia, che inevitabilmente le radio accettano a scatola chiusa, proponendo suoni già super collaudati in altre parti del mondo e cercando sul suolo nazionale qualcosa che gli assomigli, mettendo in evidenza quanto poco potere decisionale e quanta poca conoscenza delle dinamiche di questa musica i network e le case discografiche abbiano. Per quanto riguarda invece i media di settore, devo dire che li ho sempre trovati un po’ troppo stereotipati e molto spesso afflitti da dilettantismo, scarsa professionalità e il solito cronico nepotismo all’italiana, oltre che tristemente sprovvisti di obiettività. Senza contare che generalmente, i magazine (quando non ricevono precise istruzioni dalle major per spingere i loro artisti di punta), sono così abituati a confrontarsi con artisti emergenti, disposti quasi a tutto pur di promuovere le loro opere, che hanno sviluppato, in alcuni casi, una sorta di strana arroganza, nella ferrea convinzione (e i fatti tendono a dargli ragione) che nessuno sarebbe così autolesionista da andare contro i propri interessi rifiutando loro copertine o interviste, perché in disaccordo con le loro linee editoriali, le quali, a mio avviso, non fanno altro che omologare gli artisti, stereotipandone l’immagine. Diciamo che generalmente non ho molto interesse a leggere di musica, preferisco limitarmi ad ascoltarla. Inoltre sono fortemente attratto del potere dei numeri. Meno parole in circolazione, meno alta è la possibilità di dire minchiate; è un’equazione. Sono peraltro intimamente convinto di essere dove sono (sai che roba) non per quanto abbia detto o fatto, ma per il contrario. Credo che la musica vada promossa con la musica, non con idiscorsi. So che è semplicistico ma, io non faccio le regole, perciò, non è detto che debba per forza obbedirvi.
Più di dieci anni fa hai cominciato a rappare in italiano, il tuo primo album si chiamava Fastidio e trasmetteva un profondo senso di inadeguatezza interiore, un malessere molto concreto e interiorizzato. Col tempo nei tuoi dischi questo malessere è rimasto il protagonista della tue rime, ma ha assunto dei toni piu’ mistici e spirituali, quasi la cronaca di un eterna lotta fra le forze del bene e del male…questo misticismo è soltanto uno strumento che utilizzi nello scrivere i tuoi testi o c’è una componente del genere anche nella tua vita personale?
Io sono dei Gemelli, e per quanto mi ritenga poco incline a dare credito all’astrologia sono persuaso di possedere due personalità molto differenti tra loro, portate agli estremi, nella loro antitesi. La loro convivenza non è stata mai molto armoniosa, e insieme ad altri fattori, causa di molteplici circostanze negative, spesso portandomi a porre al mondo e a me stesso, domande di cui avrei fatto molto meglio a ignorare le risposte… quelle poche volte che le ho trovate. Se questo sia più o meno la medesima esperienza del resto dell’umanità lo ignoro, ma se da un lato sono convinto della assoluta inutilità di farsi troppe domande ai fini pratici dell’ esistenza quotidiana, dall’altro sono sempre stato molto curioso nei confronti del sapere in generale, e delle infinite variabili della percezione della realtà (sempre ammesso che esista). Recentemente ho creduto di poter trovare una mediazione accettabile nello studio del pensiero Occamiano e nel tentativo di comprendere la polemica contro la postulazione di eventi quando essi non sono necessari per intendere la realtà (sempre ammesso che esista). Ma per quanto apparentemente soddisfacente, la sua applicazione pratica ha un prezzo da pagare che solo ora sto cominciando a comprendere. Ad ogni modo preferisco senz’altro perdere il mio tempo in questo genere di speculazioni che prendere in considerazione, l’accettare tutto passivamente in nome di un ordine che non mi appartiene, e che non comprendo. Sono persuaso che il bene e il male siano convenzioni umane. L’autocoscienza, che a quanto pare è il segno che distingue l’homo sapiens dal resto del mondo animale, non sembra sia sufficiente a renderci la vita migliore. Al contrario, mi sembra che in natura ogni genere di efferatezza sia giustificata dall’istinto di auto conservazione, tuttavia non mi risulta che nessun animale abbia mai fatto prostituire la propria prole per un guadagno materiale, questa è una prerogativa esclusivamente umana. La mia vita, come del resto, credo, la maggior parte dei miei processi mentali tiene conto di queste ed altre informazioni; a volte come una porta aperta che non può essere richiusa. La mia musica non può che esserne una diretta conseguenza. O almeno fino ad ora ho avuto la presunzione di basarmi su questo convincimento.
Nel 96 cantavi “Mi chiedo dove stanno i miei fratelli…”. E ora? Chi sono e dove sono i tuoi fratelli?
Purtroppo quel pezzo è stato profetico, e molte delle persone a cui ero legato oggi non so dove siano ne cosa stiano facendo.Ciononostante se alcuni legami fortunatamente hanno retto la distanza, altri invece si sono rivelati solo delle speculazioni legate all’aspetto pseudolavorativo, anche se per onestà devo dire che alcuni rapporti li ho fottuti io e non sono poi più stato in grado di riparare. Spero di riuscire a mantenere quelli che mi sono rimasti anche al di là dell’ambito musicale ora che questo è arrivato quasi al capolinea.
Nel novanta per cento dei testi rap c’è una nemesi. Un nemico da combattere come riscatto personale. Può essere il Potere come può essere lo scrauso, molto spesso è un “tu” generico contro cui scagliarsi. A volte si ha l’impressione che senza quel “tu” molti di noi avrebbero scritto meno della metà di quanto hanno fatto. Quel “tu” diventa una via di mezzo fra un capro espiatorio e una vera e propria musa ispiratrice. Quanto è necessario avere un nemico?
Potrebbe non esserlo, ma è una costante talmente radicata nell’ Hip Hop da essere diventata una tradizione. A volte è solo un mezzo per fare mostra di skills, a volte è un interlocutore reale, a volte no, o può essere entrambe le cose in un antagonista, utilizzato come metafora per mettere alla berlina contraddizioni, o atteggiamenti considerati in contrasto con la propria visione delle cose; oppure semplici dissapori personali. Del resto è una consuetudine legata al mondo della parola e dello spettacolo, non a caso sulla facciata di molti teatri campeggia la scritta “Castigat ridendo mores”, ossia: la satira sferza i costumi deridendoli. Poi come in ogni cosa c’è chi tende ad abusarne; mi ci metto anche io ovviamente, anche se col tempo ho cercato sempre più spesso di non ricorrere a questo tipo di stesura, ma a volte non si riesce proprio a rinunciare. E’ un lato purtroppo molto marcato della mia personalità, non cerco più molto la polemica, ma riconosco di essere ancora un discreto rompicoglioni. Tuttavia se devo, oggi cerco di fare capire in modo più chiaro possibile a chi mi sto riferendo, (soprattutto per me è indispensabile che sia chiaro alla persona in questione) perché quando questo avversario virtuale rimane sempre anonimo e\o diventa una presenza costante, appare evidente che siamo davanti ad un deficit di argomentazioni, in un genere già famoso per non averne poi moltissime.
Ti nutri ancora di Fastidio? O, col passare del tempo, è lui che piano piano ha cominciato a nutrirsi di te? Trovi ancora forza nel sentirti in “guerra” con il mondo o questo stato mentale di perenne conflitto comincia a mostrare i suoi lati negativi?
Il fastidio, inteso come metafora del rap, suppongo sia abbastanza calzante, e non posso nascondere che oggi è un’esperienza che, come l’età, pesa parecchio sulle spalle, ma se da un lato posso solo ringraziare questa Cultura per avermi non solo salvato da me stesso più volte, dall’altro sospetto che sia stato solo rimandare l’inevitabile. Tipo Forrest Gump al terzo coast to coast a piedi, ti dico: sono un po’ stanchino. Venti anni sotto i sound system più molesti d’Italia (oltre a un’altra dozzina di serissime ragioni) hanno lesionato, tra le altre cose, tanto il timpano quanto la volontà, tanto da non sapere a chi attribuire alcune frequenti perdite di equilibrio.
“A 16 anni stavo messo male, vedevo il sole splendere dalla corsia di un ospedale…”. Cosa ricordi di quel periodo? Ammesso che tu voglia parlarne.
Vorrei poter dire: fortunatamente poco; ma non è così, è stato un periodo particolarmente negativo, che in molti modi ha segnato la mia adolescenza, che tuttavia sono riuscito con molta fortuna a lasciarmi alle spalle ma che al contempo ha lasciato profondi cambiamenti con i quali tuttora convivo. Amo molto un passaggio di “Sfida il Buio” di Deemo, (che tra l’altro ha realizzato per intero lo splendido artwork del digipack) tuttora una delle più importanti canzoni della mia vita, che recita: “Ciò che non ci distrugge ci rende più forti”. Mi piace da sempre, anche se sfortunatamente non ha molte aderenze con la mia esperienza personale, che invece mi ha insegnato che ciò che non ti distrugge….. ci è solamente andato molto vicino.
Perché “Karma”?
Si potrebbe parlare per decenni sul significato del Karma; anzi, in effetti credo che lo si stia facendo da secoli. Ogni cultura ne ha una propria visione e una propria interpretazione, io ne ho data una mia personale, partendo da innumerevoli riflessioni e da molteplici letture a riguardo, che tuttavia non hanno fatto che portarmi un bagaglio di punti di domanda in cui cerco ancora le risposte. Mi piace il concetto di inevitabilità degli eventi, e per quanto razionalmente non lo posso accettare, talvolta ho assistito a concatenazioni particolarmente complicate di fatti, che mi hanno instillato il sospetto che possa esistere la possibilità di un disegno superiore. Tuttavia al momento, usando il Rasoio di Occam come strumento analitico, non posso fare a meno di ritenere la vita, l’universo e quanto ne concerne, frutto del caso e di semplici reazioni della materia. Probabilmente è per questo che la title track è cosi breve. Per quanto riguarda il titolo del disco, e per sottolineare che il fatto che considero comunque questa, una mia personale visione e che reputo le manifestazioni del Karma, qualunque esse siano, oggettivamente pericolose, (almeno per me) ho voluto giocare con le parole mantenendo minuscola la “k” e maiuscolo il resto, che forma ovviamente la parola ARMA.
Io e te condividiamo la stessa passione per i fumetti. Il Fumetto per eccellenza?
Impossibile poterne citare solo uno, pur non essendo un collezionista amo tutto il mondo dei fumetti, senza distinzione se non quella della qualità. Ma considero davvero dei capolavori, nei rispettivi generi, pubblicazioni come Arkham Asylum di Mckeen, il Collezionista di Toppi, Appleseed di Masamune Shirow, Little Nemo di McCay, e tutti i lavori di Miller (ma più come sceneggiatore). Inoltre Moebius, Bourroghs, Altuna, Mcfarland, Ikegami, Foster e altri fanno parte del mio background.
Mi piacerebbe che tu scrivessi qualche riga di commento a delle fasi della tua vita riconducibili ai progetti che hai portato avanti o in cui sei stato tirato in mezzo. Radical Stuff: Un progetto ambizioso a cui non ero preparato.
Zero Stress: Un occasione sprecata. Zona Dopa: Un esperienza indimenticabile, molto più di un luogo; uno stato mentale. Melma e Merda: Qualcosa di irripetibile.
Quando ci incontrammo per la prima volta mi parlasti di “Tales from the crack side”, un pezzo di K Solo che ti piaceva particolarmente. Che impressione ti fa risentirlo adesso, dopo tutti i cambiamenti che il rap ha intrapreso? Sei uno di quelli che tira fuori i vecchi dischi impolverati e li riascolta con una certa nostalgia o il passato è passato e conta solo quello che sta per succedere?
Entrambe le cose. Ci sono dei pezzi che continuerò a sentire sempre e che mi regaleranno sempre le stesse emozioni, nonostante i milioni di ascolti, ma non voglio (ancora) chiudermi nella teca del passato. La fuori, nonostante il pessimo periodo in cui versa questo genere, sono sicuro che c’è un nuovo Rakim che sta lottando, come mille altri grandi artisti sconosciuti, cercando di emergere. E’ con questa gente che ho voluto confrontarmi, non ho alcun interesse a indossare i panni del senatore a vita, mettila come una necessità di stimoli; il rap è sempre stato comunque anche competizione. Anche se oramai credo di aver raggiunto uno standard tecnico che mi consente di esprimermi in maniera abbastanza personale, tanto da potermi distinguere, (aldilà della voce distrutta) credo, dal resto del panorama, senza più ricorrere per forza a virtuosismi.
Dovunque si va, si trova un tuo clone. Qualcuno che magari senza rendersene conto cerca di rappare come te. La cosa ti inorgoglisce, ti imbarazza o ti lascia del tutto indifferente?
Non credo di averne più di Voi e sicuramente meno di molti altri artisti nel nostro panorama. Forse i miei si sentono di più perché sbraitano come l’originale. Scherzi a parte è sicuramente una cosa che fa piacere, anche se a volte può essere imbarazzante, non lo nego, ma ognuno di noi si è ispirato a qualcuno; è un passaggio naturale della crescita, fino a che non si affinano gli strumenti per poter rendere la propria musica più personale possibile, questo credo valga per tutti i generi.
Tre rappers (americani e non..) senza i quali Kaos One non sarebbe quello che è ora…
Per gli italiani Mdee, Deemo e Il Colle. Per gli americani Smooth & Trigga, Scarface, Zone 7.
Ti senti ancora un B-Boy fiero? E, azzardo, fiero di cosa?
Da molto tempo mi viene attribuita, erroneamente, la paternità della figura del B-Boy fiero. In realtà fu Neffa a coniare questo termine, in un pezzo in cui apparsi come featuring, presente ne “i Messaggeri della Dopa”, anche se in seguito utilizzai spesso quel termine per descrivere una precisa tipologia di carattere, che allora ritenevo interessante. Personalmente, sono convinto che questa sia una delle poche culture in grado di fornire, a chiunque ne accetti le regole, gli strumenti per potersi esprimere ad alti livelli in modo originale, anche non avendo (io ne sono un esempio) nessuna particolare predisposizione artistica. Dovrebbe bastare avere qualcosa da dire, o dirlo in modo particolarmente originale. Ed è questa peculiarità, a mio avviso, ad avere reso questo genere così popolare nel mondo. Oltre ad essere qualcosa che la mia generazione, e quella seguente, considerano proprie, più vicine, appartenenti allo stesso secolo. Sono persuaso che L’Hip Hop abbia redento e dato uno scopo a molte esistenze, non solo alla mia, e se devo essere fiero di qualcosa, lo sono unicamente nei riguardi di ciò che questa cosa ha rappresentato e rappresenta per me.
Il disco perfetto, se c’è….qual è?
Non credo molto nella perfezione; non credo esista qualcosa che non possa essere migliorato: se così fosse, probabilmente perderei ogni interesse nei suoi riguardi. Ma il disco che, a mio parere, si avvicina molto al massimo grado qualitativo mai espresso da questa musica, secondo i miei parametri, dovrebbe essere: “No one can do it better” di D.O.C.
Un tuo pezzo si chiama “Arkham Asylum”, che è il manicomio criminale di Gotham City, la città dell’uomo pipistrello. Se dovessi fare una scelta, cosa sceglieresti fra la folle ostinazione di Batman o l’ostinata follia del Joker?
Arkham Asylum compare nelle prime strisce di Batman già nel 1945, ma Bob Kane, il suo autore, prende in prestito questo nome da una serie di racconti di H.P. Lovecraft, che dal 1939 crea una città immaginaria di nome Arkham ambientata nel XVII secolo, attraversata dal fiume Miskatonik e nella cui omonima università verrebbe celato il celebre Necronomicon. Mi hanno sempre affascinato questi collegamenti, tipo matrioska, ho spesso provato ad usarne in certi testi. Per come la vedo io entrambe le scelte portano al medesimo risultato, con la differenza che nel primo caso, contrariamente al secondo, è l’ostinazione a creare la patologia, il che comporta (almeno all’inizio) una grande determinazione oltre che una volontà precisa, che non può essere contemplata in un territorio privo di regole e confini, quale la follia pura.